Una politica senza etica è un corpo senza anima
Sovente si sente dire, con qualunquismo da Bar dello Sport, che “la politica è una cosa sporca”, il che sottintende il dovere morale per le persone pulite che vogliano mantenersi tali, di astenersi da ogni imbrattamento con essa. Corollario necessario a tale premessa, è che bisognerebbe avere in partenza un’attitudine ai loschi affari per potersi dedicare all’agone politico, che in tal modo viene ad essere totalmente snaturato dal suo stesso etimo, che è quello di servizio da rendere alla “polis”, cioè alla causa del bene comune. Per il Guicciardini la politica era il regno del “particulare”, cui il Croce contrapponeva -giustamente riallacciandosi alla tradizione greco-romana- la tesi della politica come educazione etico-religiosa al perseguimento di finalità generali di bene comune, vale a dire di libertà, onde la politica che se ne fosse discostata, era destinata nel corso della storia a rivelarsi di corto respiro. La libertà, intesa così come sintesi di forze morali “non risorge[va] in perpetuo con perenne giovinezza”, perché in realtà non moriva mai – scriveva ancora il Croce – e le sue morti erano meramente apparenti. I Regimi che la contrastavano con violenze ed oppressioni, erano pertanto avviati ad essere sconfitti nel corso del tempo.
Anche a livello individuale ciascun uomo che vive all’interno della polis ( cioè dello Stato), qualunque sia il suo ruolo socialmente attivo, in ragione della sua dimensione relazionale con i propri simili, può definirsi “uomo politico” in senso lato , o uomo sociale che dir si voglia, nella sintesi tra etica (dimensione spirituale) e vita economico–politica (dimensione fisica). A ciascuno, nel proprio ambito, è dato concorrere alla promozione della res publica Il contrasto tra vita contemplativa ed attiva, è solo apparente, ove si tenga a mente l’insegnamento di Aristotele, per il quale non erano pratiche solo le azioni concrete, ma anche le riflessioni che, educando la mente, preparavano al ben operare (euprassia). L’uomo morale – affermava nuovamente il Croce – è il vir bonus agendi peritus, il quale opera nel quotidiano alla luce di una retta coscienza che ne ispira l’agire concreto, indicando i fini di utilità generale da raggiungere e di cui farsi strumento. La vita morale abbraccia indistintamente tutti gli uomini di governo e di opposizione, se persone di buona volontà e miranti alla nobile causa del progresso dei cittadini, in un’armoniosa “concordia discorde”, che è il sale della democrazia e la distingue dai sistemi totalitari.
Il presidente Pertini, fautore di una giustizia sociale mai scindibile dalla libertà, affermò: “La politica, se non è morale, non mi interessa … non la considero nemmeno politica. La considero una parolaccia che non voglio pronunciare. Non esistono una moralità pubblica e una moralità privata. La moralità è una sola, perbacco! E vale per tutte le manifestazioni della vita. E chi approfitta della politica per guadagnare poltrone o prebende, non è un politico. E’ un affarista, un disonesto”. Ed ancora : “Io sono intransigente, prima di tutto verso me stesso.. E dico che la politica deve essere fatta con le mani pulite. Cioè [il politico] non deve compiere atti di disonestà, poiché ne deve rispondere non solo dinanzi alla sua coscienza, ma ne deve rispondere anche di fronte al corpo elettorale”.
Il presidente emerito Ciampi, dal canto suo, nell’ideale colloquio con i giovani veicolato tramite il suo ultimo libro (A un giovane italiano), ribadì che “la politica non è una cosa sporca,[ma che]sono gli individui che con la loro condotta riprovevole possono imbrattarla”. Un’altra voce autorevole è quella dello scomparso giurista Rodotà, il quale, a sua volta, scrisse in un saggio (Elogio del moralismo) che per aversi una sana politica, non basta il non aver violato il codice penale, dato che chi ricopre responsabilità pubbliche – vieppiù nel caso di Parlamentari – non deve venir meno a comportamenti ispirati a quei valori di “disciplina ed onore”, che sono testualmente evocati dall’art. 54 cost.
Non è dunque configurabile, innanzi ad un desolante scadimento del costume politico nelle forme e nella sostanza, una divaricazione tra azione politica ed azione morale, con la conseguenza che si dovrebbe accettare il crudo schema del Machiavelli, teorizzante una Ragion di Stato in ossequio alla quale il fine giustificherebbe i mezzi (purché – si badi bene – almeno il fine sia di utilità pubblica e non di tornaconto personale). Né è accettabile che possa professarsi una morale pubblica antitetica a quella privata: l’Uomo morale è un tutt’uno inscindibile nella sua persona. Innanzi a bassezze astutamente giustificate da necessità storiche o da realismo politico che dir si voglia, non bisogna mai abdicare al ruolo della propria coscienza e della legge del Dovere costantemente evocata da Kant. Né bisogna pavidamente rassegnarsi a sintonizzarsi su “come va il mondo”, essendo necessario invece preoccuparsi di assecondare la voce della stessa coscienza, la quale non ammette di essere soffocata, se non al prezzo di dover provare vergogna di se stessi alla fine dei propri giorni.
La vita politica deve essere perennemente sinergica con quella dello spirito, attraverso quell’impegno di promozione morale e civile di cui si resero apostoli infaticabili i Padri del Risorgimento, e poi quelli della Costituzione, accomunati nel tempo dal medesimo esempio di umile e sobria probità. Una politica disancorata dall’etica cessa di essere tale, in quanto vuota di contenuti socialmente apprezzabili, per cui la frode che ne deriva al contratto sociale idealmente stipulato fra rappresentanti e rappresentati, comporta che questi ultimi revochino il mandato elettorale non adempiuto con onore. Einaudi nelle sue “Prediche inutili” scriveva: “Il solo criterio della verità politica, come di ogni altra verità, è il diritto illimitato di discutere le regole accettate nel costume o nelle Costituzioni scritte, di criticare gli ordinamenti esistenti e gli uomini al potere, di adoperarsi per mutare gli uni e cacciare gli altri di seggio, il diritto della minoranza di trasformarsi, in virtù di persuasione, in maggioranza”.
Una riflessione a più ampio orizzonte deve abbracciare la mega-polis Europa, che non può riduttivamente considerarsi una costruzione meramente economica – tale è la tesi di quanti ne paventano la dissoluzione a “rimorchio” della crisi dell’euro – dato che il fattore economico ha certamente la sua incidenza, ma nell’ambito di un più ampio quadro di condivisi valori morali, senza i quali anche l’ economia è destinata ad autodistruggersi. L’egoismo può pagare nel breve termine, ma alla lunga è perdente, in un mondo sempre più interconnesso in una sorta di macro –città globale, chiamato più che mai con urgenza a recepire l’esigenza di una giustizia redistributiva a livello internazionale, postulata sin nel mezzo della Seconda Guerra mondiale già dal Croce, auspicante un’Europa da realizzarsi con “abundantia cordis”, cioè “con cuore umano e cristiano”. Ciò significava uscire dagli egoismi e dall’indifferenza all’altrui povertà: “La moralità – spiegava il filosofo – si attua solo con gli uomini tutti, combattendo o collaborando con essi per la comune umanità. E solo per questa via della ognora crescente civiltà, la pace si manterrà a lungo e sempre si ristabilirà più profonda e forte”. Con profetica lungimiranza egli esortava alla condivisione del benessere e della libertà, senza la qual condivisione i diseredati si sarebbero giustamente ribellati, riversandosi come masse disperate nei Paesi economicamente avanzati.
Venendo all’attualità, anche in momenti di crisi come quello che stiamo attraversando, morale prima che economica, che della prima è diretta conseguenza, occorre prendere le mosse da una coscienza rettamente indirizzata, senza scoraggiarsi del fatto che l’entusiasmo morale conosce degli alti e dei bassi, dato che – lo insegnava il Goethe – i periodi di decadenza vanno ritenuti momenti eterni del progresso stesso.
Il pensare che, per risalire la china nel contesto europeo, bastino nuove e più intense sinergie economiche, vuoi attraverso la ridefinizione del ruolo della Banca centrale europea come unico ente erogatore di spesa, vuoi con un sistema tributario centralizzato per tutti i Paesi membri, è riduttivo, in quanto le forze economiche non sono soggetti etici e, se lasciate a se stesse ad operare in base a dei meri rapporti di forza tra classi sociali (datori di lavoro e lavoratori), o tra singoli Stati membri (ancora sin troppo ancorati a visioni nazionali), l’Europa come ‘sintesi di valori’ potrebbe scivolare più o meno inavvertitamente nella sua autodistruzione. Le difficoltà debbono affrontarsi non alla luce di un liberismo economico incontrollato, che non può assurgere a regola morale in quanto volto all’utile individuale, ma alla luce di un liberalismo che, come filosofia dello spirito, ammette certo la libertà economica, ma nella superiore cornice dell’innalzamento del benessere comune (nel caso di specie ”comunitario”), secondato da un sistema di libertà, il quale soltanto è in grado di promuovere la vita morale nella sua interezza.
Tale sistema dobbiamo mantenere ed a nostra volta consegnarlo a chi verrà dopo di noi, lottando contro la tentazione di derive demagogiche o qualunquistiche: le persone rette sanno intendersi oltre gli schieramenti, avendo il fine comune dell’amore per il proprio Paese, come ben dimostrarono i Costituenti, al cui spirito occorre oggi ritornare.
di Tito Lucrezio Rizzo per VAGLIO MAGAZINE