Il Favor rei si arresta alle porte degli Enti locali

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Il Favor rei si arresta alle porte degli Enti locali

 

È generalmente noto che se un comportamento è ritenuto riprovevole

o contrastante con i valori assunti come essenziali dalla collettività il Legislatore  lo configura come reato, poiché ne consegue l’efficacia deterrente che suole riconoscersi ai massimi livelli nella sanzione penale.

Se viceversa il comportamento non desta particolare allarme sociale, può apparire sufficiente la sanzione amministrativa, ferma restando – ovviamente – l’eventualità di una contestuale responsabilità civile e/o disciplinare.

Circoscrivendo il discorso alla relazione tra sanzione penale e sanzione

amministrativa, ricordiamo che a seguito della “depenalizzazione” di vari reati minori, venuta incontro all’evoluzione del comune sentire ed alla necessità di perseguire con maggiore celerità ed efficacia i crimini più pericolosi per l’ordinato vivere civile, alcuni illeciti da tempo non costituiscono più reato.

La tutela dell’individuo contro l’onnipotenza dello Stato, risale alla “Magna Charta Libertatum” del 1215 e, più specificamente in campo criminale, ha trovato alta espressione nel principio del “Nullum crimen, nulla poena sine lege”, elaborato in Germania dal fondatore della scienza moderna del diritto penale, Anselmo Feuerbach (1775-1833).

Principio questo, poi recepito dal Codice penale francese del 1810, adottato l’anno seguente nel Regno d’Italia, e nel 1812 nel Regno di Napoli, per arrivare nel 1848 allo Statuto Albertino, che all’art.26 così recitava: “La libertà individuale è guarentita. Niuno può essere arrestato o tratto in giudizio, se non nei casi previsti dalla legge e nelle forme che essa prescrive”.

Il codice Rocco, tuttora vigente, mantenne nella formulazione degli artt.1 e 2 c.p. princìpi in parte analoghi a quelli contenuti dal richiamato Statuto, così recitando: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza, se non nei casi previsti dalla legge”. Ad ulteriore tutela dell’individuo “in bonam partem” interviene altresì l’art. 14 delle Disposizioni sulla legge in generale,che vieta l’analogia in campo penale, per evitare un’indebita estensione di norme punitive a casi non espressamente contemplati.

Tutto quanto si è ritenuto fino ad ora utile di premettere, serve a far luce su alcune incongruenze dovute all’incompleta applicazione dell’invocato principio del “favor rei”, paradossalmente proprio a quelle sanzioni amministrative che già di per sé sono rivelatrici di una politica di minor rigore punitivo, rispetto alle “sorelle maggiori” operanti in materia penale.

Una prima innovazione venne introdotta dalla Legge 24 novembre 1981, n. 689, che in sede di riordino del sistema penale, provvide ad introdurre il principio di legalità anche per le sanzioni amministrative, disponendo all’art.1: “Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative, se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative, si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati”.

Per un’incomprensibile “svista”, il Legislatore ha purtroppo preso in considerazione solo l’aspetto della irretroattività di una nuova norma incriminatrice,tralasciando quello altrettanto rilevante di una nuova norma che abroghi o riduca la portata di una sanzione amministrativa già esistente. A livello più generale, viceversa, nell’interpretazione dell’art. 1 della citata Legge n. 689 del 1981, la costante giurisprudenza della Suprema Corte e del Consiglio di Stato ha ritenuto di respingere la tesi che per le sanzioni amministrative, potesse trovare compiuta recezione la regola del favor rei .

In conseguenza di siffatta interpretazione limitativa, è venuta a radicarsi acriticamente la tesi giurisprudenziale giusta la quale l’illecito amministrativo resta comunque disciplinato alla legge del tempo del suo verificarsi, con la conseguenza dell’inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, pure in presenza della fattispecie di illeciti amministrativi derivanti dalla depenalizzazione di pregressi reati. Va da sé che in tal caso si verifica un effetto paradosso: se un dato comportamento, già configurato come reato,in virtù di una legge penale successiva più favorevole, cessa dall’essere tale,viene meno la correlata pena; se, viceversa, il medesimo comportamento sin dall’origine, o in seguito a depenalizzazione per il suo minore disvalore sociale viene configurato come illecito amministrativo, detto comportamento dovrà continuare – incredibilmente – ad essere perseguito.

Detto impianto interpretativo collide con la logica e con il comune sentimento della giustizia, intesa in senso formale e non sostanziale.

La ragione di tale restrittività esegetica è stata fornita dalla Cassazione, in quanto per le norme di carattere sanzionatorio, non è ammessa l’applicazione analogica (art. 14 preleggi) e, quindi, non si dovrebbero (data la specialità della materia) applicare  analogicamente i commi 2 e 3 dell’art. 2 del codice penale.

Osserviamo tuttavia al riguardo, che  il  divieto dell’analogia riguarda naturalmente le misure afflittive, ma non dovrebbe essere letto come preclusivo di un’analogia in bonam partem .

Un barlume di luce – purtroppo limitato alla materia tributaria – spinse il Legislatore a cambiare indirizzo a 360 gradi, per cui con l’art. 1 della Legge 7 novembre 2000, n. 326, venne   introdotto nel Testo Unico delle leggi valutarie un nuovo art. 23-bis, il quale così testualmente recita: “Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile, salvo che la sanzione sia stata irrogata con provvedimento definitivo (…). Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo”.

Rimasero acriticamente fuori da questa logica inversione di tendenza molte altre materie, come la circolazione stradale, la sanità, la previdenza, il commercio ecc. (…),con una conseguente disarmonia ordinamentale.

In un secondo momento, la Legge 21 novembre 2000, n. 342,contenente il collegato fiscale alla Finanziaria del 2000, fornì un’interpretazione “autentica” del D.P.R. di riferimento, così precisando: “L’art. 1 del D.P.R. 10 novembre 1997, n. 442, concernente l’opzione e la revoca di regimi di determinazione dell’imposta o di regimi contabili, si intende applicabile anche ai comportamenti concludenti tenuti dal contribuente anteriormente alla data di entrata in vigore del citato Decreto n. 442 del 1997”.

I nuovi orientamenti legislativi vennero naturalmente recepiti anche dalla giurisprudenza, per cui la sezione tributaria della Corte di Cassazione con sentenza n. 5931/01, chiarì  – tra l’altro – che il c.d. Statuto del contribuente, è uno strumento di garanzia del contribuente medesimo e che, quindi, mentre serve ad arginare il potere dell’Erario nei confronti del soggetto più debole del rapporto d’imposta, non può ostacolare l’approvazione di disposizioni che siano a favore di detto contribuente, che si risolvano eventualmente in un’ulteriore autolimitazione del potere legislativo: in tale ottica andava letta l’evocata Legge 21 novembre 2000, n. 342.

In tempi più recenti la Corte di Cassazione, sez. tributaria civ., con sentenza 24 gennaio 2013, n. 1656), affermò il principio che in ogni stato e grado del giudizio, anche d’ufficio, il giudice tributario può applicare un regime sanzionatorio più favorevole al contribuente, quando la legge in vigore al momento dell’accertamento e quelle successive, prevedano sanzioni di diversa entità.

La suprema Magistratura chiarì  anche,  sulla scia di un affermato orientamento giurisprudenziale, la rilevabilità anche d’ufficio del favor rei, in ogni stato e grado del giudizio, a meno che non fosse divenuto definitivo il provvedimento impugnato.

La logica della legislazione e della giurisprudenza tributaria, non ricorre tuttavia– ad esempio – nel campo della circolazione stradale, dove citiamo – a titolo di esempio – la sentenza 3 giugno 2010, n. 3497 della sez. VI del Consiglio di Stato, in merito alla sanzione amministrativa della decurtazione di 20 punti dalla patente di guida di un automobilista per eccesso di velocità, occorso in data 21 luglio 2003, mentre con successiva normativa era stata disposta la decurtazione dimezzata per le patenti rilasciate dal 1° ottobre 2013.

Ove fosse stato applicato il favor rei invocato dall’interessato, avrebbe dovuto comminarsi la sanzione più mite sopraggiunta; tuttavia i giudici di Palazzo Spada ritennero non estensibile retroattivamente detto principio, evocando a tal fine la giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale aveva affermato che l’interpretazione  rigoristica fosse conforme ai princìpi dell’ordinamento costituzionale, in quanto in materia di sanzioni amministrative non era dato rinvenire, in caso di successione di leggi nel tempo, un vincolo imposto al Legislatore nel senso dell’applicazione della legge posteriore più favorevole.

Rientrava nella discrezionalità del Legislatore medesimo – secondo la Consulta – e nel rispetto del limite della ragionevolezza, modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore (era quest’ultimo il caso delle sanzioni tributarie) a seconda delle materie oggetto di disciplina.

“Ubi eadem legis ratio, ibi eadem legis dispositio” recitava il Digesto  millecinquecento anni or sono, costituendo un monumento di razionalità scritta, tanto da aver ritrovato la sua terza giovinezza nella Cina post-maoista, dove –debitamente tradotto- costituisce l’ossatura del diritto privato di quell’immenso Stato. Ma “nemo propheta in patria”, per cui l’Italia, sotto il profilo in esame, è sì la culla del diritto, ma il diritto –diceva nel 1973 il nostro Maestro Virginio Andrioli – “ce s’è cullato così bene che s’è addormito e nun se sveja più”.

Un’ulteriore materia assai controversa, maggiormente nota al vasto pubblico più per le polemiche politiche che ne sono derivate, che per la “peculiarità“ del suo singolare impianto tecnico-giuridico, è quella del D.Lgs. 31 dicembre 2012, n. 235 , meglio nota come Legge Severino, giusta la quale – ex art. 1 – non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per associazione a delinquere, associazione di tipo mafioso, sequestro di persona, reati con finalità di terrorismo; per reati contro la Pubblica Amministrazione, quali peculato, corruzione, concussione; o, in ultimo, per reati dolosi per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni.

Le medesime condizioni ricorrono, ex art. 4, per l’incandidabilità alla carica di membro del Parlamento Europeo spettante all’Italia; nonché, ex art. 6, per l’assunzione e lo svolgimento di incarichi di governo nazionale.

Per l’incandidabilità alle cariche elettive regionali (art. 7) ed a quelle degli altri Enti locali territoriali (art.10) – vale a dire Comuni, Province e Circoscrizioni – il Legislatore sceglie un elenco in gran parte simile a quello fornito dall’art.1, comunque ancorando nuovamente la preclusione in parola ad una sentenza definitiva.

Il “cambio di registro” rispetto alle norme di riferimento concernenti il Parlamento nazionale, avviene però con l’art. 8 in tema di sospensione e decadenza di diritto per incandidabilità per le cariche regionali, ed al successivo art. 11 per gli amministratori locali, in quanto nelle more processuali dell’accertamento definitivo dei reati indicati all’art. 7, tutti gli appartenenti a dette categorie restano sospesi in una sorta di limbo, a far data già dalla prima sentenza di condanna, ancorché impugnabile.

A giustificazione della retroattività della legge in discorso, taluni esegeti hanno affermato che la decadenza è una sanzione amministrativa e non penale; ma anche volendola così caratterizzare, non può essere disatteso il principio enunciato in via generale dall’art. 25, comma 2, Cost., giusta il quale nessuno può essere punito se non in base ad una legge antecedente al fatto commesso .

Che il principio di tassatività, e quindi di non retroattività, riguardi anche il campo amministrativo, può evincersi altresì dal successivo comma 3, che testualmente recita: “Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”. Dato che le misure di sicurezza sono sanzioni amministrative , bisognerebbe argomentare che la guarentigia costituzionale valga solo per esse, e non pure per le altre sanzioni aventi la medesima natura amministrativa.

Ove ciò non bastasse, va rammentato che la legge Severino deve ottemperare a quanto disposto in via generale dall’art. 11 delle Disposizioni preliminari alla legge in generale, che testualmente recita: “La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”.

Osserviamo pertanto in linea di principio che il noto divieto di analogia, ove non si voglia restare ancorati a quello che è stato definito “gretto formalismo”, mira a tutelare l’individuo da restrizioni non testuali e non a privarlo della estensione di guarentigie previste in suo favore in campo penale o amministrativo.

Ricordando l’antica affermazione del Digesto “Ubi eadem ratio, ibi eadem dispositio”, nelle more di una riforma legislativa che il Parlamento dovrebbe operare estendendo il “favor rei” a tutti gli illeciti amministrativi, la giurisprudenza potrebbe efficacemente colmare la lacuna, estendendo analogicamente anche ad altri settori il “favor rei” introdotto in materia valutaria e fiscale.

In merito alla legge Severino, la Corte Costituzionale, con sentenza 20 ottobre 2015, n. 236 , nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.11 della medesima, in merito alla “Sospensione e decadenza di diritto degli amministratori locali in condizione di incandidabilità”, ha deciso sulla questione sollevata nel giudizio promosso dal Sindaco di Napoli contro il Ministero dell’Interno, per l’annullamento del decreto di sospensione dalla sua carica, per effetto di una condanna pronunziata in primo grado sul fumoso reato di “abuso d’ufficio.”

Il TAR aveva sospeso provvisoriamente gli effetti del provvedimento impugnato, fino alla “ripresa” del giudizio cautelare successiva alla definizione della questione di legittimità costituzionale, disponendo altresì la sospensione del giudizio. Il TAR aveva evidenziato che la sospensione era stata decisa a seguito e per effetto di una condanna penale non definitiva, e non di una condanna irrevocabile, argomentando che “una lettura costituzionalmente orientata del dato normativo” non autorizzava l’interprete a presumere la sussistenza di una situazione di indegnità morale che legittimasse l’inibizione dell’accesso ad una carica pubblica o la sua perdita, in tale situazione”.

La Consulta, viceversa,  ricordò che – anche in base alla propria pregressa giurisprudenza su norme di legge costituenti altrettanti precedenti della c.d. Legge Severino – andava escluso che le misure della incandidabilità, della decadenza e della sospensione avessero carattere sanzionatorio, dovendosi bensì ritenere conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento.

In sostanza il Legislatore, operando le proprie valutazioni discrezionali, aveva ritenuto che, in determinati casi, una condanna penale precludesse il mantenimento della carica, dando luogo alla decadenza o alla sospensione da essa, a seconda che la condanna fosse definitiva o non definitiva.

Di fronte a una grave situazione di illegalità nella Pubblica Amministrazione– argomentava ancora la Corte Costituzionale –non era irragionevole ritenere che una condanna (non definitiva) per determinati delitti (per quanto qui interessa, contro la Pubblica Amministrazione) suscitasse l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica, per evitare un “inquinamento” dell’amministrazione e per garantire la “credibilità” dell’Amministrazione presso il pubblico, cioè il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’Istituzione, che poteva rischiare di essere incrinato dall’“ombra” gravante su di essa, a causa dell’accusa da cui era colpita una persona attraverso la quale l’Istituzione stessa operava.

Tale esigenza sarebbe stata vanificata se l’applicazione delle norme in questione avesse dovuto essere riferita soltanto ai mandati successivi alla loro entrata in vigore.

Così come la condanna irrevocabile poteva giustificare la decadenza dal mandato in corso, per le stesse ragioni la condanna non definitiva poteva far sorgere l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente l’eletto da tale mandato, sicché si doveva concludere che la scelta operata dal Legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità non avesse superato i confini di un ragionevole bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco, secondo la Consulta.

Pertanto la medesima dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, del D. Lgs. 31 dicembre 2012, n. 235.

Non possiamo esimerci dal notare, che ove anche si accettasse la natura di provvedimento cautelare per quello della sospensione dalla carica di amministratore locale, permangono due macroscopici rilievi critici:

1) l’evocata indegnità morale evocata dalla Consulta, così come dal Consiglio di Stato, dovrebbe vieppiù essere ostativa per i membri del Parlamento nazionale, come di quello europeo, essendo essi latori di istanze collettive di livello ben più alto rispetto a quelle di cui sono espressivi gli amministratori degli enti territoriali;

2) la misura cautelare, nel caso di specie, sarebbe comunque anomala, in quanto non prevista tra quelle contemplate nell’elenco contenuto nella parte prima, libro quarto, del Codice di procedura penale, con doveroso carattere di tassatività e di esaustività.

In ultimo, con sentenza  n.36 del 23 gennaio 2019  la Corte costituzionale, nuovamente chiamata ad esprimersi in merito su alcuni profili di costituzionalità della legge Severino dal Tribunale di Lecce , si è spinta a dichiarare legittima la sospensione di diritto degli amministratori locali, anche in caso di condanne non definitive antecedenti all’elezione.

La vicenda di specie concerne un candidato alla carica di Sindaco, che era stato condannato in primo grado, non già dopo l’assunzione della carica pubblica, ma prima.

Secondo l’Alto Consesso, tale condanna non era preclusiva alla preliminare candidatura, ma – ove eletto l’interessato – alla titolarità della carica in parola.

Il sistema andava considerato razionale-secondo la Corte-  in quanto una condanna pregressa per un reato «avulso» dalla carica non sarebbe ritenuta condizione sufficiente per limitare il diritto inviolabile di elettorato passivo; mentre la condanna sopravvenuta in corso di mandato avrebbe potuto rilevare ai fini della sospensione, per il possibile danno da essa inferto «all’immagine dell’amministratore».

La scelta del Legislatore di non attribuire rilievo, nei casi considerati, all’intervenuta  investitura popolare del condannato, e di far prevalere, nei termini e nei limiti detti, l’interesse alla legalità dell’amministrazione- hanno affermato  i Giudici costituzionali –  non risulta irragionevole.[..] In questa logica, l’“atto di fiducia” di una parte dell’elettorato che elegge il candidato già condannato (in via non definitiva) non è sufficiente a far venir meno l’esigenza di tutela oggettiva dell’Ente territoriale. Senza considerare le esigenze di garanzia dell’intero corpo elettorale, le cui altrettanto meritevoli aspirazioni all’onorabilità e alla credibilità dell’eletto possono essere messe in discussione dall’elezione del condannato.”

La Corte costituzionale ha voluto  evidenziare che, nel  momento in cui in precedenza aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che prevedeva l’incandidabilità, come conseguenza di provvedimenti precedenti alla condanna definitiva, aveva  chiarito che” nondimeno le vicende penali precedenti l’elezione non possono restare irrilevanti, dovendo conseguire a esse la sospensione (prevista per le stesse vicende, qualora intervenute durante il mandato), perché «una contraria interpretazione risulterebbe gravemente irragionevole e fonte di ingiustificata disparità di trattamento» (sentenza n. 141 del 1996).

In parole povere il significato di quest’ultima sentenza è il seguente:ti puoi candidare, ma poi se vieni eletto, sarai sospeso !

Vogliamo per incidens ricordare che nel 1895, alle votazioni che si erano svolte dopo  i tumulti dei Fasci siciliani, furono eletti in Parlamento  tra i socialisti De Felice, Bosco e  Barbato, che erano in stato di detenzione come “sovversivi”. Anche in altre occasioni dei reclusi per reati a sfondo politico, considerati particolarmente pericolosi per le Istituzioni , sarebbero usciti dal carcere grazie alle elezioni, cui erano ammessi come votanti meno del 3% degli italiani, appartenenti al ceto borghese.

Nella consolidata  civiltà del suffragio universale, basta oggi la denunzia capziosa di un avversario politico per avviare un procedimento penale, onde rovinare la reputazione di un candidato alle elezioni amministrative, fintantoché il processo penale non si concluda con l’assoluzione. Ma l’assoluzione- vieppiù oggi con la sciagurata proposta di una prescrizione senza limiti temporali – potrebbe arrivare “a futura memoria”.

A distanza di 130 anni dai moti di Sicilia, è lecito il dubbio che la nostra non sia una civiltà giuridica regressiva?

 

di Tito Lucrezio RIZZO per VAGLIO MAGAZINE

Pubblicato da:

Tito Lucrezio Rizzo

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