Ancora “insuperato” nel suo genere, prendendo a prestito la definizione che ne diede Italo Calvino (1), il “Diario di un giudice”di Dante Troisi è un libro problematico, potente nella carica morale, permeato di uno sguardo severo sul mondo della giustizia amministrata nel mondo dei vinti, degli sconfitti di una società meridionale primitiva e solitaria.
Pubblicato per la prima volta da Giulio Einaudi, nella collana “I gettoni”, nel 1957, il libro racconta la vita del giudice Dante Troisi in una Cassino ancora distrutta ed avvolta nelle macerie della guerra ma abitata da magistrati e avvocati che regolano, giudicano, accusano, condannano e assolvono i molteplici comportamenti di uomini di un tempo arcaico.
Uomini che non comprendono quella giustizia e la subiscono, a loro volta non visti e non compresi da chi li giudica. Ognuno immerso nel proprio mondo, nelle proprie regole, nelle proprie immoralità.
Il diarista percuote la propria coscienza senza indulgenza e racconta la sua angosciata realtà senza tradire le speranze ultime della giustizia.
Le sentenze fredde e ostinate che investono ogni cosa, attraverso il campo visivo del giudice, non precludono le possibili attese dell’inviolabile sacralità della funzione e dei doveri connessi al giudicare che restano però utopia con tutta l’importanza ma anche l’impotenza che il concetto evoca.
L’equilibrio tra lo sgomento morale di fronte all’ambiente di chi pratica professionalmente la giustizia (giudici, avvocati, cancellieri) e la distanza da uomini e cose giudicati e difesi è davvero sottile.
Tanto sottile da aver prodotto un procedimento disciplinare posto a carico del Troisi, per il quale un giovane Aldo Moro invocava esemplare punizione.
E questo pur in presenza di una religiosità laica e di un tono narrativo autorevole che lascia nel lettore l’idea di aver finalmente colto un frammento di verità.
Perché l’autentica moralità di Troisi, oggi ancora più riconoscibile e con più libertà rispetto a quanto poteva esserlo nell’Italia conformista e bigotta degli anni ’50, svela gli angosciosi misteri della condizione umana, seguendo i canoni di una letteratura come istanza esistenziale di fronte al groviglio inestricabile della realtà e del suo rigenerarsi solitamente per compromessi.
In un Paese avviato alla normalizzazione, guidato da una classe politica “atlantica”, responsabilizzata dal mantenimento di equilibri sociali e internazionali ancora fluidi, gli intellettuali non rinchiusi negli schemi culturali del P.C.I. o del tutto refrattari a considerare l’Italia contemporanea come il migliore dei mondi possibili, avvertono, come Troisi avverte, l’impellenza di guardare alla società senza disincanto, al modo degli Sciascia, dei Pomilio, dei Mario La Cava.
Troisi, come loro, sceglie la posizione da dove combattere, senza illusioni.
“L’intellettuale italiano raramente conosce la solitaria protesta pubblica: di solito il suo istinto è farsi folla, moltiplicarsi nella ressa e cominciare a credere sempre dopo la conta. A credere, però, un poco: non troppo né del tutto, per non correre il rischio di un’alleanza protratta nel tempo” (2).
Sono parole di Trosi e ci danno un’idea della cifra della sua riflessione.
E della sua eterna contemporaneità.
Il giudice e lo scrittore, a braccetto, osservano la realtà metallica e abitudinaria delle aule di giustizia con poderoso anticonformismo, senza veli partitici, con una disposizione alta in senso morale e mai disposta alla transazione.
Da queste esigenze impellenti, ineludibili, germogliano le pagine dedicate alla sua esperienza di giudice nel Tribunale di Cassino, “paese su misura per preti e avvocati”.
“In provincia valgono i rapporti personali. Giudici e avvocati passeggiano per le stesse strade, frequentano i medesimi locali. Un avvocato non consente che il giudice si paghi il caffè o l’aperitivo; strizza l’occhio al padrone e attende sorridendo che il magistrato si rassegni, più o meno in fretta, a riporre in tasca il danaro. Poi parlano di un libro (ma rarissimamente), di un avvenimento di cronaca, di un processo celebrato altrove, infine pettegolano sui rispettivi colleghi: con l’ausilio della maldicenza nasce la reciproca stima”.
La posizione eretica di Troisi non poteva non essere combattuta sia dai politici che dall’ordine giudiziario del tempo.
E lo sarebbe anche oggi.
Articolando il suo pensiero, amaro e al tempo stesso razionale e intransigente, il magistrato scuoteva dall’interno della sua composizione il sistema e la realtà giudiziaria, con una riflessione che incrocia quella di Salvatore Satta che in alcuni saggi, scritti tra il 1949 e il 1958 , era giunto a sottintendere “ che esiste una vera e propria vocazione del nostro tempo a vivere senza il diritto”.
A Cassino, dove quasi in esilio è costretto ad esercitare la sua funzione di magistrato, Troisi individua i tratti metaforici della realtà.
“Bianchi come me, qui, sono il prete, il sindaco e pochi altri. Qualche volta capita di incontrarci ma il privilegio di quel colore che ci distingue dal resto dei paesani, chissà perché, trovandoci insieme, non ci esalta. Forse un segno che i neri premono e minacciano troppo da vicino? Ma no….è solo il dispetto di dover dividere il potere”.
Ad oltre sessanta anni dalla sua pubblicazione il diario continua a sprigionare ostinazione morale oltre che sapienza di scrittura.
La sua utopia continua ad irradiare un fascio di luce, un solitario granaio per quanti non vivono al riparo dei forti.
Anche oggi la lettura di questo testo può essere preziosa per tutti quelli, noi avvocati in primo luogo, che accettano di farsi interrogare dalla domanda di Elias Canetti, contenuta ne “La provincia dell’uomo”: ” Vuoi veramente far parte di coloro ai quali va sempre meglio?”(3).
Per tutti quelli che condividono il senso di fallimento come magnificamente definito dallo stesso Troisi:
“Fallimento è cosa diversa dalla sconfitta. La sconfitta sottende l’urto, il confronto diretto con gli altri e il mondo di fuori non è mai un pretesto o un’astrazione: un personaggio sconfitto ha tentato la sua interpretazione, ha proposto il suo giudizio morale e patisce la sua partecipazione. Quando, invece, ci si sottrae a misurarsi con l’esterno (per disgusto o nella persuasione dell’inevitabile delusione) abbiamo la rinuncia, la descrizione di questa rinuncia e, quindi, il fallimento. Alla sconfitta si arriva, e dunque si potrebbe anche non arrivare; al fallimento, no; si parte già con questo risultato e lo si da per scontato (con compiacenza)” ( 4).
Sperando di aver suscitato l’interesse per una lettura che non finisce di stimolare e scuotere, rimandando alle mirabili pagine di Troisi per ogni ulteriore spunto di riflessione, mi piace concludere con lo stesso congedo di Dante Troisi dalla scrittura del suo diario:
“E ora basta col diario. Sono stato come il cattolico che segna i digiuni, le elemosine e quante ore ha portato il cilicio. Ho la vocazione a fare il giudice. Mi sono agitato per negarlo ma in questa professione ho il miglior rifugio, la difesa più sicura. Poco fa ho confessato a mia moglie l’insidia di ieri sera. Non volevo procurarle tanto dolore. Tanto dolore che forse andrà via per suo conto, spontaneamente.
Domani sarò a Roma, ad assistere, per la prima volta a un’udienza della Corte Suprema di Cassazione: mi dicono che se ne esce soggiogati, definitivamente posseduti dalla brama di avanzare nella carriera e di sedersi in quell’aula”.
Note
- Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947 – 1981 a cura di G. tesio, Torino, Einaudi, 1991, p.493.
- Troisi, Viaggio scomodo di un giudice, Milano, Rusconi, p.251.
- Canetti, la provincia dell’uomo, Milano, Adelphi, 1993, p.270.
- Troisi, I bianchi e i neri, in Viaggio scomodo di un giudice, cit., p.156.