“Per ogni detenuto in galera c’è a piede libero l’avvocato che lo ha difeso.”
“La parola alla difesa.”
“Grazie Giudice.”
E adesso?
La parola a me? Devo parlare io? Aspettavo dall’inizio del processo questo momento, ma ora? Che cosa gli racconto? Aspetta, parto dal fatto o devo prima contestare quello che ha detto il Pubblico Ministero?
Devo fare una dotta citazione? Una frase celebre? Li stupisco con effetti speciali? Un brocardo latino?
No, forse è meglio tenere un basso profilo. Sono un avvocato di oggi: uso il computer e il cellulare: ho tutto sul tablet. Non ho studiato la mia arringa su volumi di dottrina scritti da grandi maestri (e non chiamarla arringa, si dice discussione oggi); non ho selezionato una ad una le sentenze da citare leggendole e imparando a memoria; le ho caricate da internet, ho fatto un copia incolla di tutto quello che sembrava utile e chissà se sono davvero aderenti. Io ho messo solo le parole chiave essenziali per la ricerca.
Il mio cliente è colpevole, lo so, ma forse potrebbe essere anche innocente. Le prove però sono tutte contro di lui, ma non ha confessato. E almeno un ragionevole dubbio c’è.
Che cosa ha fatto? Non importa. Io non sto difendendo un colpevole o un innocente. Io sono un avvocato e tutelo le regole, il Codice. La Costituzione.
No, ho sbagliato. Io non sono come Borelli e non sono un manettaro. E’ innocente fino a sentenza definitiva di colpevolezza; passata in giudicato.
Infatti decide il giudice. Non è un gioco di parole, è vero. E’ così. Il Giudice è quel signore che si trova a tre metri da me; da solo o con altri suoi colleghi decide la causa; decide su innocenza e colpevolezza; decide il destino di chi si è affidato a me. E la mia voce qui la avverto inutile. Penso abbia già deciso.
E allora a che cosa serve il mio lavoro? Perché sono qui?
Qualcuno si chiede a che cosa serva un processo. Basterebbe un giudice che stabilisce la pena e, magari, per la soddisfazione di qualcuno, del popolo della rete, butta via la chiave. Anzi: neppure il giudice perché basta il Pubblico Ministero, l’organo dell’accusa. Se le sue indagini vanno nella direzione della colpevolezza a che cosa serve tutto il resto? Specialmente la difesa. Anzi, tutto il processo.
Eppure mi hanno concesso la parola.
Posso chiedere l’assoluzione? O devo limitarmi a chiedere il minimo della pena? Non posso limitarmi a chiedere pietà? Devo rispettare almeno la mia dignità e quella del mio assistito; altrimenti che cosa davvero sto facendo qui?
Mi sento come un mago e il pubblico si aspetta che io riesca a tirar fuori un cilindro da un coniglio. Che cosa posso inventarmi?
Non siamo però in un film americano. Non posso chiedere una perizia psichiatrica sull’avvocato di controparte o sul giudice, né tirare fuori un testimone dell’ultimo momento; neppure posso sperare che un investigatore privato entri in aula con il documento che dimostra l’innocenza del mio cliente.
Lo so che molti se lo aspetterebbero. Hanno imparato la giustizia in televisione e su internet. Li sento che mi stanno guardando e non capiscono perché io non faccia come Perry Mason. Loro se lo aspettano. Ma io no.
Ma il mio lavoro è fare l’avvocato. Qui! In Italia! Oggi!
E lo farò fino in fondo, cercando nei limiti del possibile di difendere il mio sventurato assistito per garantirgli quel giusto processo previsto anche (addirittura!!!) dalla Costituzione.
Sarebbe bello se sui giornali e in TV venisse spiegato, almeno una volta e con le parole giuste, che il compito di un avvocato non è quello di far sempre e comunque assolvere il proprio cliente o inventare cavilli e scappatoie. Un avvocato è un tecnico e, come tale, deve garantire proprio la difesa tecnica e garantire, prima di tutto, il rispetto delle leggi, dei codici, dei diritti della persona. Io devo garantire un equo processo. Credo faccia parte di quella cosa che si chiama democrazia. Quella cosa che si dice inventarono ad Atene.
Sono io l’unico guardiano delle garanzie e delle libertà del mio assistito. Sono io che devo far rispettare la nostra Costituzione, le dichiarazioni internazionali di diritti e le convenzioni che li garantiscono. E’ un compito talmente delicato e che richiede una mente sgombra da ogni possibile emozione, al punto che il nostro ordinamento, nel penale, non permette ad alcuno di difendersi da solo. Neanche ad un bravissimo avvocato.
Io devo tutelare il mio assistito. Non tirarlo fuori ad ogni costo: tutelarlo ed evitargli ogni forma di abuso.
Come?
Intanto non lo farò processare sui giornali o in TV. La gogna mediatica (che belle immagini sanno coniare i giornalisti) la eviterò a tutti i miei clienti. Se si trovano in un’aula di giustizia, forse sono stati già maltrattati dalla loro stessa vita o da strane circostanze, e non sarò certo io a sottoporlo ad un processo di pettegolezzi e luoghi comuni, gestito da tuttologi ed opinionisti d’occasione. Non lascerò il mio cliente in mano agli informati della rete.
No alle chiacchiere da bar. Se mai mi dovesse capitare un caso da prima pagina (ma questa è una mia opinione del tutto personale), non accetterei la difesa laddove i miei clienti chiedessero di andare in TV o volessero rilasciare interviste. A chi lo fa devo ricordare che il lavoro di un avvocato si svolge in un’aula di tribunale: non è un accattone di simpatia nei salotti pecorecci della TV nazional popolare.
Difenderò quindi il mio cliente prima di tutto da abusi e violazione dei suoi diritti di indagato e imputato, perché anche loro hanno diritti. Non siamo, anche se qualcuno pensa il contrario, in una dittatura.
Se il mio cliente dovesse essere condannato va bene, ma che sia nel rispetto della procedura, e non mediante processi sommari istruiti sulla rete; la pena dovrà essere quella prevista per il reato commesso. Non una sentenza capitale mascherata.
E’ finito il mio lavoro di avvocato? No, perché dopo una condanna definitiva, e dopo che il mio cliente avrà scontato la sua pena, gli garantirò il diritto ad essere dimenticato: si chiama diritto all’oblio.
Non è giusto che ad un uomo resti a vita un marchio di infamia se riesce a rieducarsi, come prevedrebbe ancora la Costituzione; non è giusto che debba essere ricordato ad ogni anniversario del crimine commesso, come l’autore dell’efferato delitto. Magari lo capissero giornalisti e conduttori che fanno pessimo spettacolo sulla pelle altrui dando oltretutto un’immagine sbagliata, distorta, falsa della Giustizia. Visibilità a scapito del cliente e del processo.
Tutto ciò non vuol dire che se le norme sono sbagliate non possano essere cambiate. Io per primo ne contesto molte: ma, fino a che saranno il nostro diritto vivente, le rispetterò: nella forma e nella sostanza.
E se il mio cliente fosse davvero un conclamato colpevole? Magari di un crimine veramente efferato?
Farò ugualmente l’avvocato.
In aula abbasserò una saracinesca, e ideale, che mi isolerà dal resto del mondo per tutto il tempo necessario. Vestirò la mia toga come una seconda pelle e parlerò. Non mi ripeterò, non sarò logorroico. I giudici mi ascolteranno, ed alla fine decideranno liberamente.
Avrò fatto il mio dovere.
Ah sì, un’ultima cosa prima di alzarmi e accogliere l’invito che mi ha rivolto il Giudice. Ricorderò sempre il consiglio del mio vecchio maestro di non innamorarmi della causa, di non sposare per forza le tesi del mio assistito. Non devo pensare se è colpevole o innocente, se ha torto o ragione. Devo fare l’avvocato. Il mio vecchio maestro mi diceva che in questa professione psso credere a tutto, tranne alle menzogne del mio cliente.
Cercherò eventuali attenuanti; evidenzierò le lacune dell’accusa, farò valutare al meglio attenuanti e circostanze a favore per far sorgere al giudice almeno un ragionevole dubbio. E concluderò la mia discussione senza toni pietistici o chiedendo clemenza.
Ma il Tribunale mi ha dato la parola; e io sono pronto.
“Grazie Presidente. Io contesto la ricostruzione dei fatti e le conclusioni del Pubblico Ministero e anticipo le mie conclusioni chiedendo l’assoluzione del mio assistito in quanto …”.