L’intruso e il mito della privacy: una riflessione amara

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Mi si permetta una considerazione su una vicenda che, nonostante l’apparente banalità del fatto, tocca nervi scoperti della nostra società. Parlo del dipendente di una banca che, spinto da chissà quale malsano gusto, ha frugato tra i conti correnti di personaggi noti per migliaia di volte. Non ci voleva la sfera di cristallo per prevedere lo scandalo, eppure quello che ci lascia perplessi non è tanto la prevedibile malafede dell’intruso quanto l’indifferenza generale verso il tema che essa dovrebbe sollevare: la privacy. Ma di quale privacy parliamo?

Ecco, appunto.

La privacy, questa parola che oggi si sciacqua in bocca ogni volta che ci capita sotto mano un modulo da firmare o un avviso di cookie online. “Protezione dei dati”, “consenso informato”, “GDPR”. Parole pompose che ci fanno sentire garantiti, sicuri. Eppure, la verità è che non siamo mai stati così vulnerabili, esposti, e – paradossalmente – così poco consapevoli di cosa davvero significhi tutelare la nostra riservatezza.

La faccenda è semplice: il furbo funzionario bancario, invece di dedicarsi al suo lavoro con scrupolo, ha ben pensato di passare ore a spulciare i conti correnti di celebrità e vip come se fosse in un reality show finanziario. Che un impiegato possa fare questo, sfruttando le falle nei sistemi di controllo, fa venire il sospetto che la nostra tanto decantata privacy sia fragile come una foglia d’autunno. Ma ciò che mi interessa non è tanto l’aspetto tecnico della violazione, quanto la domanda più profonda che dovremmo porci: cos’è, oggi, la privacy? E soprattutto, chi se ne preoccupa davvero?

Aggiungo un’affermazione che potrebbe apparire scomoda: in passato c’era più consapevolezza. Forse non avevamo tutte le leggi, i codici e le certificazioni di cui oggi siamo dotati, ma almeno la riservatezza era vissuta come un valore. Si difendeva non tanto il dato in sé, ma la persona nella sua integrità. Oggi, invece, sembra che il concetto di privacy si sia ridotto a una questione puramente formale: compilare l’ennesima informativa, spuntare la casella “accetto”, e avanti così. Mentendo quando si risponde alla domanda se abbiamo letto le condizioni di navigazione Ma nel frattempo, sui social, condividiamo ogni dettaglio della nostra vita senza alcun filtro.

E allora, mi chiedo, non sarà che abbiamo confuso la privacy con la protezione del dato? E che la tutela del dato – tanto più in un’epoca di Big Data e algoritmi – sia ormai diventata una battaglia persa in partenza, mentre quella della riservatezza della persona non è nemmeno più combattuta? E i più giovani vivono in un mondo dove conta solo l’apparire, l’immagine che deve essere approvata dall’esterno; meglio ancora se da sconosciuti.

Il funzionario curioso, con il suo clic facile, non è che l’ultimo esempio di una lunga serie di violazioni che denunciano una perdita collettiva di coscienza. Il problema non è solo la mancanza di un efficace sistema di controllo, ma il fatto che nessuno, a partire da noi stessi, sembra più curarsi della propria riservatezza. Ci illudiamo che basti una password, un blocco di sicurezza, un bel sistema criptato per sentirci protetti. Ma la verità è che la privacy, quella vera, non è mai stata una questione di sistemi tecnologici, ma di educazione, di discrezione, di buon senso. Tutte cose che, oggi, sembrano merce rara.

Le leggi sulla protezione dei dati sono importanti, per carità, ma finché continuiamo a comportarci come se la nostra vita fosse un programma televisivo aperto a tutti, non ci sarà tecnologia che potrà salvarci dalla nostra superficialità. La privacy, signori miei, non è solo una questione di chiavi digitali. È, prima di tutto, una virtù umana. E finché non torneremo a coltivarla, non ci sarà regolamento che potrà proteggerci da noi stessi.

Montanelli, se fosse qui, probabilmente ci bacchetterebbe con la sua arguzia tagliente: “La riservatezza non è un diritto, è un dovere verso se stessi”. Ma chi ci pensa più? Oggi basta cliccare su un modulo online e la coscienza è a posto. Solo che il prezzo lo paghiamo noi, con la nostra personalità regalata agli operatori della rete, giorno dopo giorno. E forse anche con la nostra dignità

E allora, mentre ci indigniamo per l’ennesima violazione della privacy, facciamo tutti un esame di coscienza: siamo ancora capaci di capire cosa significa essere padroni del nostro spazio personale? O ci siamo già abituati a vivere come vetrine ambulanti, sempre pronti a mostrare tutto a tutti?

E noi avvocati? Purtroppo, sento ancora chi sostiene che il segreto professionale è il nostro confine a tutela della privacy dei clienti. Dobbiamo fare ancora molta strada.

Gianni Dell’Aiuto

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Gianni Dell'Aiuto

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