Aldo Moro, il Capo dello Stato mancato, a 45 anni dall’assassinio

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Aldo Moro (Maglie, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978) dopo essere stato eletto alla Costituente (1946), fu relatore della parte concernente i diritti dell’uomo e del cittadino. Dal 1948 in poi fu costantemente eletto per la Democrazia cristiana alla Camera dei deputati, ricoprendo poi gli incarichi di ministro di Grazia e Giustizia, Pubblica istruzione, Esteri e di presidente del Consiglio. Segretario del partito nel 1959, operò con gradualismo per la svolta di centrosinistra, attuata nel 1963 con il primo Governo inclusivo dei socialisti, a sua guida. Ordinario di diritto penale a soli 35 anni, formò intere generazioni di discepoli a Bari e poi a Roma, impegnandosi affinché l’università contribuisse – nella sua missione educativa – a veicolare il “senso pieno della vita, all’amore del lavoro come fatica lietamente accettata, insostituibile compito umano, contributo di opera dato per soddisfare i bisogni degli uomini con i quali siamo fraternamente solidali”. Grande era la sua capacità di ascolto e la flessibilità di un’interlocuzione rispettosa delle ragioni dell’altro, pur nella radicata saldezza dei propri principi: non era l’economia il termine ultimo, la ragion d’essere, il senso fondamentale dell’umanità, bensì la persona nella sua integrità interiore e morale. Il concetto di libertà era inscindibile da quello di solidarietà. “Lo Stato veramente democratico – aveva detto alla Costituente – riconosce e garantisce non soltanto i diritti dell’uomo isolato, ma i diritti dell’uomo associato secondo una libera vocazione sociale”. In ambito internazionale, solo la libertà “garantita come sovrana regola di vita e orientata secondo principi morali”, avrebbe potuto soddisfare le aspirazioni dei popoli, recepite dalle Nazioni Unite nella salvaguardia di quei diritti umani che erano superiori al concetto stesso di sovranità dei singoli Stati.

Ovunque riaffiorava l’impostazione giusnaturalistica del filosofo del diritto Moro, per il quale la legge scritta non era altro che “energia dello spirito operante nell’esperienza giuridica”. La pace tra le genti non significava indifferenza o neutralismo in politica estera, bensì saldo ancoraggio al mondo occidentale e al processo di aggregazione europea in particolare, superando a tal riguardo “i sacri egoismi e il gioco degli interessi nazionalistici”. La democrazia non era da intendersi come egualitarismo – e quindi ingiusto appiattimento – ma come pari dignità, il che comportava “autorità (e) responsabilità sapientemente differenziata in una gerarchia di diritti e di doveri”.

Predilesse i giovani, senza il cui apporto si sarebbe isterilita la politica: “La vitalità di un partito – amava ricordare – si misura soprattutto dalla sua capacità di parlare ai giovani, di persuaderli, di impegnarli a sostenere, sia pure nelle posizioni più avanzate, la sua visione del mondo e il suo progetto di convivenza civile”. La politica doveva saldamente ancorarsi a dei principi morali nella vita pubblica, come in quella privata, dato che “il basso tono della pubblica moralità e la progressiva decadenza dei costumi, non prepara(va)no certo alla democrazia”. Il sapere era essenziale per condurre al vero ed al sentimento di umanità. L’uomo di cultura avrebbe dovuto assumere innanzi alla collettività una specifica responsabilità, non solo in ordine alla sua capacità professionale, ma anche quale portatore di valori etici, in ragione dei quali poteva ritenersi spiritualmente pronto ad assolvere i più intensi doveri correlati alla vita pubblica. Un ruolo di eccellenza spettava all’università, punto di arrivo di un percorso che sin dalla prima scolarizzazione, doveva essere il più possibile inclusivo. L’università andava “umanizzata”, attraverso la capacità del maestro di scendere dalla cattedra “per farsi vicino al giovane”, onde quest’ultimo lo potesse percepire “come persona che gli vuole bene, lo comprende, è pronta ad aiutarlo; come uomo che apprezza la sua giovinezza e ripone in essa la sua fiducia; che si senta amato e preso sul serio”.

La contestazione giovanile era tuttavia tracimata in devastazioni e aggressioni di piazza fuori controllo, sicché nel discorso del 28 febbraio 1978, Moro – presidente della Dc – denunziò di aver assistito “agghiacciato” a numerosi episodi di violenza, segno della più grave crisi politica che avesse mai attraversato il Paese. In tale contesto, il Pci si rese disponibile a sostenere il cosiddetto “Governo della non sfiducia”. Il 16 marzo le Brigate rosse rapirono il presidente della Dc in via Fani, dopo averne sterminato la scorta. In seguito al fallimento delle trattative per il suo rilascio, ne fecero trovare il cadavere a via Caetani nel portabagagli di una Renault rossa il 9 maggio. Dal qual momento in poi, né le inchieste parlamentari né quelle giudiziarie, riuscirono a scoprire altra verità che quella della manovalanza dei brigatisti esecutori materiali dell’assassinio, senza poterne peraltro – o volerne – identificare i mandanti occulti. L’intera vicenda sembrava uscita dalla fantasia di Agatha Christie, con intrecci tra servizi deviati, estremisti, doppiogiochisti, infiltrati, criminali d’ogni genere e tendenza, Vaticano, Loggia P2, nella trama di un romanzo giallo di cui sono sicuri i protagonisti operativi, ma non i mandanti, ispiratori di un crimine che trascese la dimensione della vittima sacrificale, rientrando in una sorta di cinica “ragion di Stato internazionale”. Falsi comunicati, depistaggi, messe in scena, guerra psicologica, furono gli ingredienti di una partita dove sin dall’inizio si sapeva l’esito: la morte di un politico che aveva numerosi avversari all’interno del suo stesso partito. Lo statista poteva essere salvato?

Domanda retorica – diremmo – che consente due risposte: sì, se si fosse seguita la ragione del cuore evocata da Pascal; no se si fosse seguita – come fu seguita – la ragion di Stato di machiavellica memoria.

Alla nostra mente si presenta la dolorosa immagine di un amico a noi tanto caro, di un uomo onesto, di un politico dal forte ingegno e dalla vasta cultura: Aldo Moro. Quale vuoto ha lasciato nel suo partito e in questa Assemblea! Se non fosse stato crudelmente assassinato, lui, non io, parlerebbe oggi da questo seggio a voi”: queste parole pronunciate dal neo presidente Sandro Pertini il 9 luglio 1978, indicano quale sarebbe stato il coronamento della vita politica dello statista ucciso, i cui funerali furono definiti da storici di varie tendenze come i “Funerali della Repubblica”. Il predecessore Giovanni Leone avrebbe voluto graziare la terrorista Paola Besuschio, gravemente ammalata e che non aveva ammazzato nessuno, quale gesto simbolico in cambio della vita dell’onorevole Moro. Aveva pertanto deciso di firmare l’atto di clemenza il 9 maggio 1978, giorno della prevista riunione della direzione della Dc; ma “a delitto consumato – dichiarerà Leone in un’intervista postuma – mi convinsi che i brigatisti fossero al corrente di quel che stava maturando e, non volendo la liberazione di Moro, ne avessero affrettato quella mattina l’assassinio”.

Isolato dal suo stesso partito, Leone fu in seguito sacrificato all’insegna della politica della cosiddetta “solidarietà nazionale” con il Pci, onde fu costretto a dimettersi anche per la palese ostilità del segretario della Dc, Benigno Zaccagnini, che lo lasciò solo e gli negò il diritto di difendersi: “ Sono convinto – è Leone a parlare – che Zaccagnini agì in quella occasione in maniera ostile e che, alla base del suo atteggiamento, oltre alla malcelata ostilità politica di sempre, ci fu anche il risentimento per il forte contrasto che avevamo avuto nella conduzione di tutta la vicenda Moro”.

La sua morte rientrava nel contesto di equilibri politici scaturiti dagli accordi di Yalta, in quanto il “compromesso storico” risultava eversivo sia per la democrazia atlantica, che per il monolitismo intransigente del mondo comunista: la vicenda non fu pertanto quella di una trattativa finita male per l’intransigenza dello Stato, ma perché doveva concludersi tragicamente per una visione machiavellica della Storia.

La fredda coltre del sepolcro che racchiuse le spoglie mortali del presidente della Dc, non spense tuttavia il fuoco del suo esempio, che continua ad ardere nei cuori degli uomini di buona volontà e degli operatori di pace. “Io sono la Verità e la Vita”, disse Gesù. Il che rende moralmente assai più grave la responsabilità di coloro che, pur dicendosi cristiani, non avendo voluto impedire l’assassinio di Moro, finirono con il colpirle entrambe.

Pubblicato da:

Tito Lucrezio Rizzo

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