Cambi di casacca: camaleontismo o umiltà autocritica?
Numerosi sono stati nella storia dell’Umanità i “cambi di casacca”: alcuni particolarmente eclatanti, come quello ben noto verificatosi nel secolo XVIII ad opera di Charles-Maurice de Talleyrand, il quale passò disinvoltamente dall’Ancien Régime alla Rivoluzione francese; quindi al servizio di Napoleone, sino alla rottura con lui, che arrivò a definirlo per le sue acrobazie trasformistiche “un letame avvolto da una calza di seta”.
Giuseppe Giusti dedicò a quel rappresentante per eccellenza dei voltagabbana, il celebre sonetto “Il brindisi di Girella”, prototipo di una tipologia umana ricorrente nella storia di tutti i tempi. Nel Gattopardo il principe di Salina disse al nipote Tancredi Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, dal che nacque l’aggettivo “gattopardesco”, attribuito “chi non teme le trasformazioni e i cambiamenti della società, nella convinzione che essi siano solo apparenti e non compromettano le posizioni di privilegio acquisite da determinate classi”.
Quello del trasformismo è un fenomeno antico come la storia dell’umanità, ma è doveroso operare una distinzione fondamentale in base alle motivazioni che lo supportano. Moralmente esecrabile quando è dovuto a mero opportunismo; lodevole se scaturisce da una ponderata riflessione autocritica, essendo solo degli sciocchi il radicarsi in granitiche certezze che li tengono al riparo dalle tempeste del dubbio. Il richiamato termine di “trasformismo” fu usato per la prima volta in ambito politico tra la fine del 1882 e l’inizio del 1883, con un significato critico verso la politica di accordo con la Destra moderata di Marco Minghetti avviata dal presidente del Consiglio Agostino Depretis, esponente della Sinistra moderata. Benedetto Croce nella sua “Storia d’Italia dal 1871 al 1915”, facendo un ritratto dei rappresentanti della vecchia Destra storica che aveva portato a compimento l’unificazione nazionale, con quelli della Sinistra ad essi subentrati nel 1876, osservò che non vi era stata una svolta radicale nella politica nazionale, in quanto si trattò della diversa espressione di una medesima compagine liberale, espressiva di un ceto elettorale sostanzialmente omogeneo, data la ristrettezza del suffragio elettorale del secolo XIX.
Diverso fu, tuttavia, il costume ed il modo di trattare il progresso e la libertà. Per quelli della Destra – osservò il Croce – la libertà comportava la spontanea autorità del sapere, della rettitudine, della capacità, riconosciuta da uomini che erano in grado di scegliere con spirito di pubblico bene i loro rappresentanti, richiedendo loro il “coraggio della verità, l’opera razionale della discussione e dell’accettata conclusione, la coerenza del pensiero e l’azione, sdegnando essi come ciarlatanesimo l’oratoria dei demagoghi e come arte di corruttela la combinatoria degli interessi individuali o regionali o di gruppi”.
I rappresentanti della Sinistra risorgimentale erano dotati, rispetto a quelli che li avevano preceduti al Governo, di minore o inferiore cultura, di diversa tradizione nel costume pubblico, abituati come protagonisti di cospirazioni e di sommosse, a non guardare troppo per il sottile nella scelta degli alleati, per cui erano pronti – osservava ironicamente il filosofo napoletano – “a tirarsi dietro anche i ritinti borbonici del Mezzogiorno e gli scontenti del nuovo ordine , a non darsi troppo pensiero di promettere ciò che non si poteva mantenere, o a darsi l’aria di acconsentire per logorare via via quanto di impossibile era nelle domande, a non schivare atti e contatti che mettessero a rischio il decoro del contegno: che è… quello appunto che è noto come il metodo democratico”.
Il Paese reale era quello che era, per cui – notava spassionatamente Croce – non era possibile “avere in gran disdegno i compromessi e le clientele, quando ben si sapeva di non potersi appoggiare su classi conservatrici, sulla nobiltà e sul patriziato, che più non esistevano”. Si era passati dalle “grandi cose”, cioè dalle alte idealità, alle “cosette”, dalla poesia alla prosa. vale a dire agli interessi particolari di singole persone, gruppi e regioni. Il mutare del costume politico non era stato in ultima analisi “una decadenza della vita politica italiana, ma un trapasso dallo straordinario all’ordinario”.
Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952) nello specifico tema della rappresentanza politica, aveva evidenziato che, in base allo Statuto albertino, il Deputato non rappresentava il Corpo elettorale che lo aveva votato, bensì l’intera Nazione. Era pertanto in errore la prevalente dottrina, che vedeva nell’elezione una delega di poteri, ovvero un vero e proprio mandato da parte dei cittadini, poiché le Assemblee rappresentative non erano l’organo passivo della volontà di questi ultimi, ma avevano una vita propria e indipendente. Il Parlamentare eletto poteva rappresentare l’indirizzo politico generale prevalente tra i suoi elettori, cui bisognava in linea di massima attenersi, ma per obbligo morale e non certo giuridico, poiché il Deputato “conserva(va) una piena indipendenza di opinioni e di condotta o, in altri termini, egli non rappresenta(va) che se stesso”. L’elezione non era delegazione di poteri, ma “designazione di capacità”.
L’articolo 41 dello Statuto testualmente recitava: “I Deputati rappresentano la Nazione in generale, e non le sole provincie in cui furono eletti. Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli Elettori”. Tale principio era stato mutuato dalla Costituzione francese del 1791, nonché da quella belga del 1831.
I Deputati del Regno erano Organi dello Stato, quindi né rappresentanti del Collegio, né del popolo unitariamente inteso, bensì “titolari di quelle funzioni che lo Statuto riservava al Parlamento”. La loro elezione andava perciò considerata come una “designazione di capacità”.
Concetti non dissimili aveva espresso Santi Romano, allievo di Orlando, il quale sostenne che essendo la sovranità un attributo dello Stato e non dei cittadini, questi ultimi non potevano delegare agli eletti dei poteri che essi stessi non avevano (nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet). Pertanto, i parlamentari esercitavano funzioni proprie, la cui valenza traeva origine direttamente e soltanto dalla legge e non dal popolo. Ciò trovava testuale riscontro nel noto divieto agli elettori di conferire agli eletti un mandato imperativo. Il principio in discorso, frutto di una consolidata e condivisa civiltà giuridica, è stato riprodotto in età repubblicana dall’articolo 67 delle Costituzione, che sancisce: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Ciò vale non solo nei confronti dei propri elettori, ma anche del partito di appartenenza, come dei gruppi parlamentari.
La considerazione che ogni partito politico nell’arco degli oltre 70 anni dall’avvento della Repubblica, abbia cercato di vincolare ad una disciplina interna i propri parlamentari, vieppiù rigorosa nell’ambito di partiti illiberali, ha interferito di fatto con il principio costituzionale dell’esercizio della funzione parlamentare senza alcun vincolo di mandato, né verso gli elettori, e tanto meno verso i Partiti che mediano il rapporto tra di essi e gli eletti. Questi ultimi non sono “rappresentanti della volontà” dei propri votanti, bensì sono titolari di poteri loro conferiti in proprio dallo Stato, del quale – sì – manifestano il volere. Vero è che i Partiti costituiscono un soggetto intermedio tra il popolo ed il Parlamento, per cui l’appartenenza ad essi ed ai gruppi parlamentari comporta dei vincoli interni di disciplina; ma si tratta di vincoli di carattere politico-organizzativo, più che giuridico, tanto che gli stessi Regolamenti parlamentari riconoscono al singolo di intervenire “in dissenso con il proprio gruppo di appartenenza”.
Il singolo eletto mantiene integra la sua propria determinazione, fino alla conseguenza estrema dell’espulsione, ma “senza alcun pregiudizio dei poteri inerenti alla carica”. Le eventuali dimissioni da parlamentare, in seguito all’allontanamento dal proprio partito, devono comunque essere accettate dalla propria Camera di appartenenza; ma per consolidata prassi vengono respinte quando “si presumono non spontanee o motivate da dissensi con il partito di appartenenza del dimissionario”
Costantino Mortati affermò conclusivamente che “il divieto di mandato, inteso nel senso letterale e storico (…), risponde alla finalità più ampia di garantire l’indipendenza del parlamentare da ogni influenza, da qualunque parte provenga, suscettibile di compromettere l’esercizio della funzione equilibratrice, di composizione e di sintesi degli interessi sezionali, nel modo che meglio si adegui all’interesse generale”.
La Corte costituzionale con sentenza 14/1964 evidenziò che l’articolo 67 della Costituzione, collocato fra le norme che attengono all’ordinamento delle Camere e non fra quelle che disciplinano la formazione delle leggi “non spiega efficacia ai fini della validità delle deliberazioni; ma è rivolto ad assicurare la libertà dei membri del Parlamento. Il divieto del mandato imperativo, importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito, ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”.
Una voce distonica rispetto a quelle per sommi capi riportate in dottrina ed in giurisprudenza, è quella del Martines, il quale sostiene che nella realtà la disciplina di partito viene ad imporsi e che eventuali casi di ribellione vengono in genere puniti mediante sanzioni disciplinari, che possono giungere sino all’espulsione dal partito od all’esclusione dalle liste elettorali, il che opera come efficace deterrente.
Detta lettura ha naturalmente una valenza meramente fattuale, ma non certo giuridica, poiché rimane integra la libertà di voto del parlamentare nella sua autodeterminazione, coperta da guarentigia costituzionale, affinché nessuna appartenenza, nessun programma di partito, debba prevalere su decisioni che possano investire il tribunale supremo della propria coscienza, come la propria intelligenza.
La richiesta di creazione del mandato imperativo formulata oggi da due partiti in particolare (Lega e Cinque Stelle) oltre ad essere incostituzionale – per cui occorrerebbe per introdurlo una nuova formulazione del ricordato articolo 67 della Costituzione – è la negazione della democrazia liberale, ancor più grave nel momento in cui sono i partiti stessi a disattendere i programmi in base ai quali hanno ricevuto il consenso elettorale. Paradossalmente i casi – sempre più frequenti – in cui i singoli deputati o senatori abbandonano i partiti di provenienza, potrebbero addirittura risultare delle scelte correttive a livello individuale, dei cambi di rotta effettuati dai partiti di provenienza, con il risultato finale – più o meno consapevole – di una maggiore aderenza alle intenzioni di voto espresse dai propri elettori.
Pertanto, oggi non ha più senso parlare del “cambiare casacca”, dal momento che non esistono più le tradizionali casacche, ovvero dei partiti solidamente strutturati su precise basi ideologiche, che nella solidità organizzativa e programmatica fornivano nel passato una affidabile base di riferimento agli elettori. Attualmente, conta viceversa il carisma personale del singolo leader, in qualche caso fondato più sulla sua abilità affabulatoria, che sulla consistenza e coerenza del programma da lui presentato. Se poi il capo carismatico abbandona (o è costretto ad abbandonare, magari per campagne diffamatorie ad personam) l’agone politico, milioni di elettori si trovano “orfani” politicamente.
La vera crisi è dunque quella ascrivibile alla scomparsa dei partiti tradizionali, non solo in Italia, ma anche in altri Stati del Vecchio Continente. Nel Parlamento europeo sopravvivono, viceversa, accanto a gruppi minori, le tre grandi e tradizionali aree di riferimento del pensiero politico ed economico: liberali, cristiani e socialisti. Tali aree potrebbero tornare ad essere presenti in Italia a livello nazionale.
Da molto tempo navighiamo purtroppo in una sorta di “democrazia fluida”, con tutte le incertezze che ne derivano e che incidono sulla fiducia dei cittadini, sulla reputazione internazionale e sull’affidabilità economico- finanziaria del “sistema- Paese”. Il tutto in mancanza di chiarezza di programmi, di determinazione seria sulla loro attuazione, di affidabilità morale di taluni proponenti, di stabilità degli equilibri parlamentari. Equilibri – lo ribadiamo – che saltano non tanto per i “cambi di casacca”, ma per l’assenza delle casacche stesse, per cui ogni eventuale censura morale (non certo giuridica, per le ragioni sopra evidenziate) sul passaggio da una forza parlamentare all’altra, potrebbe a maggior ragione rivolgersi ai partiti che nascono e si inabissano come l’isola ferdinandea.
Il problema, in ultima analisi, non è pertanto quello della presunta infedeltà del parlamentare rispetto a coloro che lo hanno votato, ma dell’infedeltà di un intero sistema, dove il cittadino non può più prevedere come sarà utilizzato il suo voto: in una coalizione di centrodestra? Di centrosinistra? Di sinistra-destra?
La democrazia non è e non deve essere la sintesi rappresentativa di un’aggregazione meramente numerica o – “aritmocrazia” che dir si voglia – come è avvenuto in recenti esperienze governative. Essa deve bensì consistere nell’alleanza di forze politicamente convergenti su programmi e valori compatibili, per conseguire governabilità e stabilità politica. Altrimenti, oggi come oggi, il votare si risolve in una sorta di scommessa al buio, che può tradursi nella cattiva morte della democrazia, non tanto per l’asserita violazione del rapporto tra il singolo eletto ed il cittadino elettore, quanto perché sono proprio i partiti a tradire le aspettative di coloro che li hanno votati.
Attualmente gli esiti elettorali non permettono più di prevedere subito, in base alle risultanze delle consultazioni, quale sarà il nuovo Governo. Pertanto, l’eventuale abbandono di un singolo parlamentare dal proprio Partito in favore di un altro, non è un tradimento verso i suoi elettori (non lo sarebbe comunque, per il ricordato divieto di mandato imperativo), ma potrebbe rivelarsi addirittura come un gesto estremo di lealtà verso il proprio elettorato, deluso dal partito prescelto.
Non va tuttavia tralasciata l’assai men suggestiva ipotesi, di quanti cambiano casacca non in seguito a nobili tempeste dell’anima, ma a ben più prosaici calcoli di convenienza personale, per entrare a far parte della maggioranza parlamentare, per rendere determinante il proprio voto a fronte di precari equilibri politici, o per creare propri spazi di potere contrattuale determinanti per la stabilità di un Esecutivo.
Ben diversa fu la nobile riflessione espressa dal presidente Luigi Einaudi in occasione della cerimonia del giuramento da presidente della Repubblica e del messaggio rivolto al Parlamento nella seduta del 12 maggio 1948: rivolto un devoto saluto al predecessore, ricordò il trapasso meravigliosamente avvenuto nella pace, dalla Monarchia alla Repubblica. Dovendo lasciare l’attività parlamentare, espresse il rimpianto di “non poter più partecipare ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune; e di non poter più sentire la gioia, una delle più pure che un cuore umano possa provare, la gioia di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui, a confessare a se stessi di avere, in tutto o in parte torto, ed accedere, facendola propria, all’opinione di uomini più saggi di noi”.
Nell’attuale legislatura alla data del 31 gennaio 2021 abbiamo assistito a 147 “cambi di casacca”, e non ci è dato conoscere se ciò sia avvenuto nelle acque limpide del pensiero einaudiano, o nella torbida pozzanghera del tornaconto personale.
.di Tito Lucrezio Rizzo