Enrico De Nicola, il Presidente schivo della nuova Italia repubblicana

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Enrico De Nicola, il Presidente schivo della nuova Italia repubblicana

Enrico De Nicola (Napoli 9 novembre 1877- Torre del Greco 1 ottobre 1959) laureatosi in Giurisprudenza, nel 1907 intraprese la carriera forense, che rappresentò sempre la sua più profonda vocazione, come comprovato sia dall’intestazione usata nel suo personale biglietto da visita, che nella targa dello studio legale in Corso Umberto a Napoli, intestata con naturale semplicità all’“ avv. Enrico de Nicola”.

Dal 1909 al 1924 fu eletto Deputato; nel 1913 fu nominato Sottosegretario alle Colonie in un governo Giolitti; nel 1919 Sottosegretario al Tesoro in uno a guida Orlando e dal 1920 al 1923 fu Presidente della Camera.

Nel 1924, insieme a gran parte della classe politica liberale, ritenne che il Fascismo potesse concorrere ad arginare e sconfiggere la sovversione dell’estrema sinistra salvo poi a recuperare il Fascismo stesso nell’alveo delle istituzioni vigenti; ma l’illusione fu di breve durata e ad essa seguì, coerentemente, la pubblica dissociazione di De Nicola, per marcare una netta ed inequivocabile presa di distanza  dalle  violenze fasciste, come da  quelle “rosse”.

Ritiratosi a vita privata, si dedicò esclusivamente all’avvocatura, né la nomina a Senatore del Regno, conferitagli dal Sovrano nel 1929, lo fece recedere dalla scelta di appartarsi  dalle attività pubbliche, poiché – fatta eccezione del voto  in favore dei Patti lateranensi–  non partecipò mai ai lavori dell’Assemblea.

Nella dimensione professionale, non volle mai accettare cause in cui fosse controparte lo Stato o la Pubblica Amministrazione, o cause nelle quali il profilo morale  sovrastasse la valutazione giuridica.

Nell’assumere una causa, accertava prima scrupolosamente che gli apparisse fondata in fatto ed in diritto, e che non fosse incompatibile con il suo rigoroso senso morale.

All’alba delle ritrovate libertà, De Nicola nelle discussioni per la scelta del nuovo sistema elettorale, dichiarò la sua netta propensione per quello uninominale, onde favorire la formazione di stabili maggioranze.

Oltre all’invocazione di una “provvida legge elettorale”, ritenne indispensabile per rafforzare la democrazia “una sana educazione politica”, avendo ben presente che la democrazia non era un fatto meramente aritmetico, ma era-innanzi tutto- consapevolezza e capacità di discernimento, che solo attraverso la cultura potevano acquisirsi.

A fronte dell’intransigenza verso se stesso, era nei riguardi degli altri dotato di grandi capacità di mediazione, animato come era dal sempre vivo desiderio di “comporre opposte posizioni” ; il che, per guardare oltre le apparenze, era una falsa contraddizione,  nascendo in realtà entrambi gli atteggiamenti dalla costante ricerca di un agire, proprio o altrui, che fosse in grado di rispecchiare la più ampia condivisione  possibile .

La sua nota perizia “arbitrale”, la sua vocazione alle transazioni, purché non fossero contrarie alla giustizia, all’onore, alla correttezza, unitamente allo sperimentato suo acume giuridico, motivarono congruamente la  candidatura a Capo dello Stato, che egli non sollecitò in alcun modo; ma che contribuì a ricomporre la pericolosa spaccatura evidenziatasi in seguito all’esito del Referendum istituzionale del 2 giugno 1946.

L’azione politica che lo avrebbe ispirato nel guidare l’Italia nel faticoso risveglio dopo la lunga notte della dittatura e dopo le macerie di una guerra sbagliata, è tutta condensata in un radiomessaggio del 14 giugno 1946, che terminava con un auspicio che aveva la duplice valenza del monito e dell’impegno: “Bisogna mantenere l’ordine, bisogna lavorare, bisogna produrre […]. Uniamoci, italiani, nel pensiero della Patria, e dimostriamo la saldezza della nostra unità – lavoratori, Forze armate, Organi dello Stato, ceti tutti – in confronto di chi insidia le nostre più care frontiere [alludeva alle mire espansionistiche jugoslave], speculando sui nostri disordini interni, e confermiamo, in vista delle trattative di pace, che il popolo italiano è risoluto a difendere il proprio, sacrosanto diritto al suo avvenire”.

Il 28 giugno1946 fu eletto “Capo provvisorio dello Stato”, ma rifiutò di stabilirsi al Quirinale, già sede dei Re, adattandosi alle anguste sale di Palazzo  Giustiniani, in un’austera concezione della sua funzione, che lo indusse a rinunciare all’appannaggio presidenziale, tenendo altresì sempre a suo carico le telefonate ed i francobolli per le sue private comunicazioni. Non si trattava di pauperismo ostentato, e quindi poco credibile, ma della reale ristrettezza di mezzi di chi aveva ritenuto moralmente doverose le anzidette rinunzie, in un momento in cui un’intera generazione adulta, uscita dalla guerra, era chiamata a fare enormi sacrifici, resi certamente più sopportabili dalla spontanea e naturale esemplarità di un comportamento proveniente così dall’alto.

Né i mezzi potevano venirgli dai risparmi accantonati negli anni della professione forense, che aveva investito- nella scarsa avvedutezza in cose economiche che contraddistingue tanti uomini di studio- in dei titoli di Stato, che avevano perduto ogni valore nel Dopoguerra.

Per l’Italia si iniziava un nuovo periodo storico di decisiva importanza per l’opera di ricostruzione politica e sociale, cui avrebbero dovuto concorrere, con spirito di disciplina e di abnegazione, tutte le energie vive della Nazione “non esclusi – tenne a precisare De Nicola nel suo discorso di insediamentocoloro i quali si siano purificati da fatali errori e da antiche colpe”.

Non mancò un accenno polemico all’atteggiamento altezzoso assunto dalle Potenze vincitrici nei confronti di un Paese che, comunque, dopo la svolta dell’8 settembre 1943, aveva lottato al loro fianco: “Ogni umiliazione inflitta al suo onore – sottolineò – alla sua indipendenza, alla sua unità, provocherebbe non il crollo di una Nazione, ma il tramonto di una civiltà: se ne ricordino Coloro che oggi sono arbitri dei suoi destini! ….La vera pace è quella delle anime. Non si costruisce un nuovo ordinamento internazionale, saldo e sicuro, sulle ingiustizie che non si dimenticano, e sui rancori che ne sono l’inevitabile retaggio”.

Malgrado la mancanza di una Costituzione, che ad un anno e mezzo  dall’esercizio della funzione presidenziale ne avrebbe dovuto orientare gli indirizzi, De Nicola seppe egregiamente navigare “a vista” e  suo fu il peso di dover creare, per la prima volta, una prassi istituzionale repubblicana .

Il 27 dicembre 1947 venne firmata la Costituzione nella stanza del Capo dello Stato, attentissimo alle ritualità del cerimoniale, che doveva avere dignità formale adeguata allo spessore contenutistico dello storico evento.

Dopo le elezioni del 18 e 19 aprile 1948, che furono decisive per la permanenza dell’Italia nell’orbita occidentale, De Nicola manifestò il desiderio di non essere rieletto e dopo la nomina del successore  Einaudi, tornò a titolo vitalizio al Senato, di cui  fu eletto a larga maggioranza Presidente il 28 aprile 1951.

Anche lì, tuttavia, alla fine preferì farsi in disparte, anteponendo la dignità ad ogni compromesso utilitaristico, per cui il 24 giugno 1951 si risolse a rassegnare le dimissioni.

Durante la collaterale esperienza dell’avvocatura, ripresa grazie alla nuova rinunzia ad incarichi istituzionali di prima linea, era facile incontrarlo con l’amatissima toga sulle spalle nelle aule della Cassazione penale,  confuso tra gli altri avvocati  in attesa di discutere le cause.

Ma il suo talento e la sua collaudata esperienza secondarono la sua nomina a Giudice della Corte costituzionale il 3 dicembre 1955, cui seguì il 23 aprile 1956 quella a Presidente della stessa.

Partendo anche lì da zero, dovette farsi carico di creare il sistema dei “precedenti”, particolarmente importante nei giudizi di conformità alla Costituzione della vastissima normativa ereditata dal periodo monarchico, nelle grandi linee meritevole di conferma per il suo intrinseco contenuto di oggettività scientifica, di razionalità , di coerenza formale e sistematica.

Preannunziò di voler lavorare alacremente poiché – osservò – “giustizia lenta non è giustizia”, tenendo fermo l’obiettivo di ottenere “il rispetto e la fiducia di tutti gli italiani”; ma il 26 marzo 1957 decise di dimettersi  anche da quella Presidenza, per ritirarsi definitivamente da ogni incarico al vertice delle Istituzioni.

Fu amato e stimato da persone di ogni ceto ed appartenenza, lasciando a tutti l’eredità morale di una   vita costantemente volta a servire la Patria con nobiltà di intenti, con personale disinteresse e con spirito di sacrificio.

Morì povero il I ottobre 1959 per una bronco-polmonite trascurata, in una casa dove non c‘erano neanche i soldi per le medicine; ma ben più poveri appaiono oggi coloro che, dimenticandolo ad oltre  60 anni dalla scomparsa,  dimostrano di non aver fatto propria la lezione di vita di un Uomo che non perseguì mai alcun vantaggio personale, testimoniando sino all’ultimo respiro, il suo distacco dai beni terreni, sorretto da quella luce dello Spirito, che traspariva vivissima dal nitore del suo sguardo cristallino e si irradiava fulgida dal suo sorriso pieno di bontà.

Presagendo la caducità delle cose terrene, aveva voluto che sull’affusto del cannone che ne avrebbe onorato la cerimonia dell’ultimo addio,  fossero posti il Tricolore ed il Tocco di Avvocato, cioè di quella professione che tenne correlata al  suo sentire più profondo, costantemente proteso al raggiungimento di una Giustizia religiosamente intesa come dimensione spirituale, prima ancora che come sistema di precetti codificati.

                                    Tito Lucrezio Rizzo per  Vaglio Magazine

Pubblicato da:

Tito Lucrezio Rizzo

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