GIUSTIZIA TRIBUTARIA: ILLEGITTIMO IL COLLEGIO GIUDICANTE COMPOSTO CON GIUDICI APPLICATI

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Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) include espressamente la riforma della giustizia tributaria nel novero dei prioritari interventi di riforma del nostro sistema giudiziario.

La riforma deve rendere autonoma ed indipendente la giustizia tributaria (Quinta Magistratura), con giudici tributari di ruolo, assunti per concorso pubblico, ai quali riconoscere un giusto e dignitoso compenso per la delicata e difficile professione giudiziaria svolta.

  1. La normativa attuale

La riforma, inoltre, deve specificatamente disciplinare la procedura di applicazione dei giudici tributari, oggi, secondo me, priva di specifica regolamentazione ed in contrasto con altra disposizione di legge.

Oggi, infatti, il D.Lgs. n. 545/1992 stabilisce che:

  • “nessuno può essere componente di più commissioni tributarie” (art. 8, comma 3, D.Lgs. n. 545 cit.);
  • il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria (C.P.G.T.), però, “dispone, in caso di necessità, l’applicazione di componenti presso altra commissione tributaria o sezione staccata, rientrante nello stesso ambito regionale, per la durata massima di un anno” (art. 24, comma 1, lettera m – bis, D.Lgs. n. 545 cit.; la presente lettera è stata aggiunta dall’art. 16 quater D.L. n. 452 del 28/12/2001, convertito nella Legge n. 16 del 27/02/2002, con decorrenza dal 28/02/2002).

In sostanza, in base alla succitata normativa, l’istituto dell’applicazione nella giustizia tributaria:

  • manca di una regolamentazione specifica, come previsto, invece, per la magistratura ordinaria;
  • in ogni caso, è limitata ad un solo anno;
  • sempre, però, nella stessa regione.

Il vero problema che si pone oggi, però, è se il suddetto istituto è compatibile o meno con la regola generale dell’art. 8, comma 3, cit., che non consente ad un giudice tributario di far parte di più Commissioni tributarie, senza alcuna precisa ed espressa eccezione normativa.

  1. Le risoluzioni del C.P.G.T.

In effetti, questa problematica era stata sollevata da molti giudici tributari, sulla legittimità o meno, in caso di disposta applicazione, di poter continuare ad espletare contemporaneamente il servizio presso la Commissione tributaria di appartenenza.

Il C.P.G.T. ha risposto al quesito con le seguenti risoluzioni:

  • Risoluzione n. 3 del 27 marzo 2007

Appare pregiudiziale alla soluzione del terzo quesito stabilire se la contemporanea prestazione del servizio in due diverse Commissioni Tributarie, a seguito di applicazione, violi il divieto di cui all’art. 8, co. 3, del d.lg. n° 545/’92.

A tal riguardo, è opportuno chiarire la natura dell’istituto dell’applicazione, al fine di tratteggiarne, pur sommariamente, caratteristiche e limiti.

Sotto un profilo amministrativistico, l’applicazione si inserisce nel novero degli istituti volti ad introdurre parziali modificazioni del rapporto di servizio (rectìus: del rapporto organico), tali però da non incidere sulla continuità del rapporto stesso. Essa si distingue dal “comando” in quanto non comporta la prestazione del servizio presso Amministrazione diversa da quella di appartenenza; e ancor più dal “distacco” in quanto non comporta la prestazione del servizio presso un diverso Ente. Al contrario, con l’applicazione si dispone la temporanea ed eccezionale utilizzazione del dipendente a mansioni della stessa qualifica o anche di qualifica diversa, sempre però della medesima carriera, presso diverso organo o ufficio della stessa Amministrazione (Cfr., al riguardo, l’art. 31 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n° 3, non abrogato dal d.lg. n° 165/’01). E tuttavia, connotato comune tra applicazione, comando e distacco è quello di non comportare alcuna soluzione di continuità nel rapporto di servizio: dato, questo, confermato dalla circostanza che in tutti e tre i casi l’onere economico per il personale grava comunque sull’Amministrazione di appartenenza.

Il descritto schema si riproduce nel caso dei magistrati tributari applicati ad altra Commissione: è noto che essi, proprio in quanto mantengono la titolarità del posto e della funzione presso la Commissione di appartenenza, continuano da questa a percepire il compenso fisso; compenso fisso che, per contro, non viene corrisposto dalla Commissione presso cui si è applicati, limitandosi quest’ultima a liquidare esclusivamente quanto dovuto a titolo di compenso variabile. È dunque evidente che, anche per i magistrati tributari, l’applicazione non comporta alcuna soluzione di continuità nel rapporto di servizio: i magistrati applicati continuano ad appartenere, durante l’applicazione, al ruolo della Commissione Tributaria di provenienza.

Se così è – come è –, allora negare ad un magistrato applicato di poter continuare ad esercitare la funzione che gli è propria anche presso la Commissione al cui ruolo continua ad appartenere risulterebbe, oltre che difficilmente giustificabile sul piano giuridico, anche gravemente illogico.

Del resto, a sostegno della tesi dianzi esposta, ancora una volta non è fuori luogo richiamare la prassi operante nell’ambito dell’Ordinamento giudiziario ordinario, in cui i magistrati applicati ai sensi del citato art. 111 del R.D. n.12/1941 continuano ad esercitare le funzioni di cui sono titolari, in pendenza di applicazione, anche presso l’organo di appartenenza.

Conclusivamente, non è precluso al magistrato tributario applicato presso altra Commissione di continuare a prestare servizio nella Commissione di appartenenza.

 

  • Risoluzione n. 2 del 29 aprile 2008 (che rettifica la precedente)

“In terzo ed ultimo luogo, non si può prescindere da una annotazione di natura costituzionale, che, proprio in quanto tale, quasi assorbe i pur solidi argomenti fin qui sviluppati. Ed è appena il caso di ricordare che quanto dettato in Costituzione, a livello di garanzie, per la magistratura ordinaria è pacificamente estensibile ad ogni altra magistratura, anche alla luce del tendenziale principio dell’unità della giurisdizione. Il riferimento è all’art. 107, co. 1, della Carta Costituzionale, che per comodità si riporta: “I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio Superiore della Magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso”.

Non per caso, infatti, l’art. 110 [non 111] del novellato Ordinamento giudiziario prevede bensì l’applicazione solo “d’ufficio” dei magistrati; esso, però, in linea con la disposizione costituzionale, subordina l’applicazione alla fissazione di “(…) criteri obiettivi e predeterminati indicati in via generale dal Consiglio Superiore della Magistratura ed approvati contestualmente alle tabelle degli uffici e con la medesima procedura.” (art. ult. cit., co. 2, prima parte).

Vale la pena, a questo punto, di riprendere il testo dell’art. 24, co. 1, lett. m-bis: “Il Consiglio di Presidenza (…) dispone, in caso di necessità, l’applicazione di componenti presso altra Commissione tributaria o sezione staccata, rientrante nello stesso ambito regionale, per la durata massima di un anno.” Si tratta, evidentemente, di applicazioni d’ufficio, posto che manca ogni riferimento al consenso dei magistrati interessati. E, come s’è visto, questo è quanto oggi accade anche per la magistratura ordinaria. Ma vi è una netta differenza: l’art. 110 Ord. giud. appare certamente in linea con la norma costituzionale (“con le garanzie stabilite dall’ordinamento giudiziario”) in quanto prevede che i criteri obiettivi debbano essere “preordinati” ed indicati in via generale; per contro, la sopra citata norma dell’ordinamento giudiziario tributario non prevede alcuna “garanzia” di criteri oggettivi e predeterminati per disporre l’applicazione di un magistrato. Né a ciò si può obiettare che il Consiglio di Presidenza può comunque dotarsi di criteri all’uopo, posto che, a partire dalla lettera della disposizione in discorso, ciò non porrebbe la norma al sicuro da censure di costituzionalità. Ed allora, la contemporanea permanenza del magistrato tributario anche nella Commissione in cui è di ruolo, oltre che in quella d’applicazione, appare conforme ad una sistematica lettura del dedotto art. 24, lett. m-bis; lettura che, in quanto più coerente al principio costituzionale di cui all’art. 107 Cost., rappresenta per questo Consiglio, oltre che un obbligo discendente dalle comuni regole ermeneutiche, anche un valido metodo per assicurare l’applicabilità dell’istituto e, finalmente, la funzionalità del servizio.”.

 

  1. Considerazioni conclusive

Personalmente, non condivido le conclusioni delle due risoluzioni sopra citate perché:

  • il riferimento all’art. 107, primo comma, della Costituzione non è corretto in quanto si riferisce soltanto al Consiglio superiore della magistratura (C.S.M.), che, peraltro, applica una speciale ed organica normativa (art. 110 dell’Ordinamento giudiziario R.D. n. 12 del 30 gennaio 1941 e successive modifiche);
  • infatti, l’art. 110 cit, norma speciale, intestato “Applicazione dei magistrati”, si riferisce esclusivamente ai Tribunali ordinari, ai Tribunali per i minorenni e di sorveglianza, alle Corti di appello, con una specifica e dettagliata disciplina procedurale, sentito anche il Consiglio giudiziario del distretto nel quale presta servizio il magistrato che dovrebbe essere applicato;
  • nell’attuale sistema giudiziario non esiste “il tendenziale principio dell’unità della giurisdizione” che, invece, era previsto dall’art. 118 del Progetto di Legge di Riforma della Costituzione mai approvato;
  • nella giustizia tributaria, invece, si fa riferimento ad un organo giudiziario diverso (il C.P.G.T.), peraltro in assenza di una espressa disciplina normativa della fattispecie e non è ammessa l’analogia per le norme speciali; inoltre, mancano le garanzie di difesa o il consenso del giudice tributario, come tassativamente previsto dall’art. 107, primo comma, della Costituzione;
  • in ogni caso, anche se per analogia si vuol fare riferimento generico all’art. 110 cit., bisogna sempre rispettare le tassative condizioni dell’art. 8, terzo comma, cit., per cui il giudice tributario applicato deve far parte soltanto di una Commissione tributaria, cioè quella cui viene assegnato (applicazione “piena”), che deve pagare il compenso fisso, al massimo per un anno e soltanto in una regione, come tassativamente previsto dall’art. 24 D.Lgs. n. 545 cit.; inoltre, soltanto una volta dovrebbe essere consentita l’applicazione e non certo tre volte, come stabilito, peraltro senza una motivazione, dalle Risoluzioni del C.P.G.T. n. 5/2002, n. 3/2007, n. 2/2008, n. 13/2014, n. 5/2015, n. 7/2015 e n. 255 del 23/02/2021, tenuto conto del corretto apporto al lavoro del collegi giudicanti, attesa la complessità delle materie trattate ed il conseguente tempo ragionevolmente occorrente allo studio delle pratiche affidate ed alla stesura delle motivazioni, unitamente a quello per il raggiungimento della nuova sede;
  • “TERTIUM NON DATUR”, se si vogliono rispettare le norme oggi esistenti e mai modificate, integrate o abrogate;
  • inoltre, proprio in mancanza di una specifica normativa procedurale, prevista invece per la magistratura ordinaria, non si può prevedere e disciplinare con una semplice risoluzione, atto amministrativo interno, la procedura da rispettare (si rinvia all’ultima risoluzione del C.P.G.T. n. 255 del 23/02/2021), anche per quanto riguarda l’applicazione di magistrati tributari in Commissioni ubicate in regioni diverse (inizialmente vietata con la risoluzione del C.P.G.T. n. 5/2002 del 10/09/2002), tenuto conto del limite logistico previsto dall’art. 24 D.Lgs. n. 545 cit. mai modificato (“rientrante nello stesso ambito regionale”); infatti, il succitato art. 24 non è stato mai modificato nonostante la legge n. 183 del 12/11/2011 avesse abrogato la lettera f) dell’art. 7, comma 1, D.Lgs. n. 545 cit., che obbligava i giudici tributari a risiedere nella regione della Commissione tributaria di appartenenza (contrariamente a quanto previsto dalla Risoluzione del C.P.G.T. del 03 marzo 2015);
  • infine, l’art. 24, lettera m – bis, citato non stabilisce alcun “criterio obiettivo e predeterminato di massima”, come, invece, previsto dallo stesso art. 24 alla lettera f (si rinvia all’ordinanza n. 309 del 20/07/2007 della Corte Costituzionale); questa mancanza di criteri e norme, logicamente, può portare ai problemi da ultimo evidenziati dalla delibera n. 583 del 25 maggio 2021 della C.P.G.T. (si rinvia all’interessante articolo di Ivan Cimmarusti in “Il Sole 24 Ore” di lunedì 07 giugno 2021).

In definitiva, nella problematica attuale, si assiste alla contraddittoria interpretazione del C.P.G.T. che:

  • in via analogica (peraltro non ammessa per le norme speciali come le attuali), tenta di colmare un vuoto normativo;
  • ma, al tempo stesso, non applica, invece, gli esistenti artt. 8, terzo comma, e 24, comma 1, lettera m- bis, D.Lgs. n. 545 più volte citato.

Di conseguenza, la presenza di un giudice illegittimamente applicato, per l’inosservanza delle tassative norme sopra citate, rende l’organo giudicante irregolarmente costituito a causa dell’incompatibilità di uno dei componenti, con la conseguenza che la relativa sentenza è affetta da nullità assoluta, rilevabile d’ufficio nel giudizio di impugnazione (artt. 158 c.p.c. e 59, comma 1, lettera d, D.Lgs. n. 546/1992; Circolare n. 39/E del 04/02/1998 del Ministero delle Finanze e Risoluzione del 18/03/1997 del Ministero delle Finanze).

Appunto per questo, de iure condendo, in occasione della riforma strutturale della giustizia tributaria, il legislatore dovrà intervenire con una normativa che specifichi, in modo chiaro e preciso, la procedura di applicazione, per evitare le problematiche di cui sopra.

Pubblicato da:

Maurizio Villani

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