LA CONFISCA DI VALORE E I REATI TRIBUTARI: IL DIVIETO DI APPLICAZIONE RETROATTIVA DELL’ART. 578 BIS C.P.P.

Tempo di lettura stimato: 15 minuti

Commento a Sent. Cass. Pen., SS.UU., 31 gennaio 2023, n. 4145

(di Alessandro Villani e Ludovica Loprieno)

 

La giurisprudenza di legittimità, con la pronuncia a Sezioni Unite indicata in epigrafe, Cassazione Penale del 31 gennaio 2023, n. 4145, è tornata ad affrontare un argomento alquanto complesso, nonché foriero di copiose querelles giurisprudenziali e dottrinarie. Il tema risolto (una volta per tutte) dagli Ermellini investe ancora una volta l’istituto della confisca per equivalente e si sofferma su una sua particolare declinazione, ossia quella della applicazione retroattiva della misura ablatoria in esame anche al reato prescritto.

La sentenza in commento è meritevole di attenzione altresì perché si occupa ancora una volta della natura della confisca in generale e della confisca per equivalente in particolare, sottolineando come la misura ablatoria de qua sia idonea ad svolgere funzioni del tutto eterogenee e come, di conseguenza, oggi non possa più parlarsi di confisca al singolare, bensì di “confische” al plurale, in quanto le diverse ipotesi di confische contemplate dall’ordinamento soggiacciono a presupposti diversi e sono applicate all’esito di procedimenti eterogenei.

Invero, il mero effetto ablativo connesso all’istituto della confisca non vale di per sé a segnare la natura giuridica della misura, perché la confisca non si presenta sempre di eguale natura e in unica configurazione, ma assume, in dipendenza delle diverse finalità che la legge le attribuisce, diverso carattere, che può essere di pena come anche di misura non penale.

Prima di analizzare funditus la questione risolta dalle SS.UU., è utile ricordare come lo Stato italiano sia stato più volte censurato dai giudici di Strasburgo circa la mancata applicazione alle innumerevoli disposizioni legislative in materia di confisca previste dal nostro ordinamento dei c.d. Engels criteria, ossia i criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte Edu  al fine “scovare” la natura sostanzialmente penale (indipendentemente dal nomen juris attribuito dal legislatore nazionale) delle disposizioni interne, con il fine ultimo di scongiurare una cosiddetta “truffa delle etichette”, atta ad impedire l’applicazione del ventaglio delle guarentigie  previste dalla Convenzione (nonché, ancor prima, dalla nostra Carta Costituzionale) a disposizioni di legge che nella sostanza presentano un carattere afflittivo/sanzionatorio.

Più in dettaglio, si ricorda che la value confiscation costituisce una particolare ipotesi di confisca che differisce in parte dalla  misura ablatoria prevista dall’art. 240 c.p. Invero, la confisca di valore permette l’acquisizione dei beni che costituiscono il prezzo ovvero il profitto del reato, quando questo non sia possibile in via diretta, anche nella forma c.d. per equivalente, cioè colpendo beni di cui il reo abbia  la mera disponibilità per un valore corrispondente a quello del prezzo o del profitto del reato.

La confisca per equivalente ha caratteristiche sue proprie che la differenziano da quella diretta sotto molteplici aspetti. Anzitutto la confisca di valore ha un’applicazione residuale, dal momento che essa opera solo qualora  non sia possibile procedere con una confisca diretta.

La confisca per equivalente ha poi sempre carattere obbligatorio, laddove prevista, ed ha carattere sanzionatorio, concretandosi in una forma di “prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti”.

La caratteristica peculiare di tale tipo di confisca è che essa esime dallo stabilire il nesso di pertinenzialità del bene oggetto di confisca con il commesso reato; fermo restando il presupposto della consumazione di un reato, non è più richiesto alcun rapporto tra il reato e i beni da confiscare, potendo essere detti beni diversi dal provento del reato stesso. Il bene confiscato infatti può essere stato acquistato molto tempo prima della commissione del reato in modo del tutto legittimo.

Numerose sono state nel corso degli anni le questioni in materia di confisca per equivalente che la giurisprudenza e la dottrina hanno dovuto affrontare. Uno di tali problemi applicativi concerne l’applicabilità della confisca per equivalente anche al reato prescritto; siffatta problematica ha suscitato talune frizioni con i principi applicabili alla materia penale  cristallizzati dalla CEDU e dai giudici di Strasburgo e non può dirsi oggi ancora completamente risolta.

Un secondo problema – a volte connesso al precedente – riguarda la possibile applicazione retroattiva della confisca per equivalente.

Con riferimento alla prima questione, occorre osservare che se per la confisca diretta, essendo un misura di sicurezza e non una pena, si è giunti alla conclusione che sia possibile addivenire all’applicazione del provvedimento ablatorio anche in caso di sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione – a patto che vi sia un accertamento di responsabilità, che pur non avendo le caratteristiche formali della condanna, ne presenti i requisiti sostanziali (consistenti nella verifica circa la sussistenza di tutti gli elementi, oggettivi e soggettivi, del reato) – lo stesso non può dirsi per la confisca per equivalente.

La ragione di tale differenza è da ravvisarsi nella diversa natura della confisca per equivalente, definita dalla Corte Edu come una vera e propria pena nella sostanza, di guisa che la medesima deve rispettare i crismi imposti dall’art. 7 della Convenzione. Tale conclusione è stata fatta propria da anche dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. sent. Cass. pen. Sez. III, Sent. 11 maggio 2020), la quale ha chiarito che  “la confisca per equivalente viene ad assolvere una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile e pertanto è contraddistinta dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, esulando dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza, nel senso che l’oggetto della confisca per equivalente finisce per essere rappresentato direttamente da una porzione del patrimonio, il quale in sé non presenta alcun elemento di collegamento con il reato commesso dall’agente. In definitiva (…) la confisca per equivalente presenta una natura prettamente sanzionatoria, il che impone di escludere (…), che possa essere disposta l’ablazione definitiva del bene ove il reato sia dichiarato estinto per prescrizione”.

Con riferimento alla seconda problematica attinente alla confisca di valore, è opportuno richiamare i principi applicabili alle norme penali. Il canone che regola l’efficacia nel tempo delle norme penali nel nostro ordinamento è costituito dal principio di irretroattività contenuto nell’art. 25 comma 2 della Costituzione, il quale stabilisce espressamente che nessuno può essere punito in base ad una legge che non era in vigore al momento in cui è stato commesso il fatto, al fine di consentire a ciascuno di conoscere in partenza tutte le conseguenze che seguono ad ogni propria azione.

La dottrina dominante e la giurisprudenza maggioritaria ritengono che il principio di irretroattività valga soltanto per le pene e non invece per le misure di sicurezza. La valenza del principio di retroattività per le misure di sicurezza viene desunta sia dal comma 3 dell’art. 25 Cost., ripreso anche dall’art. 199 c.p., che prevede espressamente che le misure di sicurezza applicabili dal giudice sono solo quelle previste tassativamente per legge, senza contenere invece alcun cenno al principio di irretroattività; sia dall’art. 200 c.p. che si occupa della disciplina intertemporale delle misure di sicurezza, sancendo in particolare che nel caso in cui la normativa relativa alla misura di sicurezza sia diversa da quella in vigore al momento della commissione del fatto, si applica quella valida al momento dell’esecuzione della stessa.

La ratio della diversa disciplina viene individuata nella funzione differente svolta dalle misure di sicurezza rispetto a quella propria delle pene: mentre queste ultime sono volte a sanzionare un comportamento che costituisce reato, di conseguenza, al fine di garantire la prevedibilità della norma penale, il reo deve conoscere prima della commissione del fatto la sanzione cui andrà incontro; le misure di sicurezza, di converso, svolgono una funzione special-preventiva, essendo previste al fine di evitare che chi ha commesso un reato cada nella recidiva. Siccome il presupposto per applicare la misura ablativa consiste in un giudizio di pericolosità sociale della persona che deve essere attuale, si ritiene corretto disporre la misura prevista al momento della sua esecuzione. Secondo tale orientamento è ben possibile dunque disporre una misura diversa rispetto a quella in vigore al tempo del commesso reato come pure è applicabile una misura di sicurezza anche se al momento in cui è stato commesso il fatto non ne era prevista alcuna.

Una dottrina minoritaria invece ritiene che il principio di irretroattività di cui al comma 2 dell’art. 25 Cost. riguardi l’intero sistema penale e non si limiti alle sole pene, con la conseguenza che non sarebbe possibile far retroagire una norma penale, anche se quest’ultima sia relativa all’applicabilità delle misure di sicurezza.

Dottrina e giurisprudenza sono invece concordi nel non ammettere la disposizione di una misura di sicurezza se, al momento della commissione del fatto, questo non era previsto come reato.

Tali conclusioni però non appaiono estendibili anche alla confisca per equivalente che, come prima detto, costituisce nella sostanza una pena, con la conseguente applicazione dei principi applicabile alle norme penali (primi fra tutti gli artt. 7 CEDU e 25 Cost.).

Ebbene, la sentenza a SS.UU. che qui si commenta è degna di nota proprio perchè analizza le precedenti questioni in maniera congiunta, nonché affronta un ulteriore problema interpretativo in merito all’applicazione retroattiva ai reati tributari della confisca per equivalente.

Le Sezioni Unite, in particolare, hanno dato risposto al seguente quesito “Se la disposizione dell’art. 578 bis c.p.p. sia applicabile, in ipotesi di confisca per equivalente, ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 1, co. 4, lett. f, legge 9 gennaio 2019, n. 3, che ha inserito nella stessa le parole “o la confisca prevista dall’art. 322 c.p.”

L’occasione che ha dato luogo alla pronuncia della S.C. trae l’abbrivo dalla sentenza della Corte di appello di Torino, la quale, pronunciando sul gravame proposto dall’imputato avverso la sentenza che lo aveva ritenuto responsabile per il reato di cui agli artt. 81 cpv, c.p. e 2, D.Lgs. n. 74/2000 (dichiarazione fraudolenta continuata mediante uso di fatture per operazioni inesistenti), aveva confermato la sentenza impugnata e disposto la confisca di beni mobili, immobili e denaro nella disponibilità dell’imputato fino alla concorrenza del profitto.

Investita del ricorso, la Terza sezione penale, ritenuta la fondatezza della questione, aveva rilevato un contrasto interpretativo in ordine alla applicabilità dell’art. 578 bis c.p.p. – che testualmente dispone che  “Quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell’articolo  240 bis del codice penale e da altre disposizioni di legge o la confisca prevista dall’art. 322 ter  del codice penale, il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato”  – ai reati commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, e con ordinanza n. 15229 del 16/03/2022 aveva rimesso la questione alle Sezioni Unite.

Le SS.UU., preso atto della sussistenza di un contrasto interpretativo, effettuano una ricognizione degli ultimi approdi giurisprudenziali in tema di confisca, evidenziando la presenza di due tesi maggioritarie sul punto.

Alla stregua di un primo orientamento, l’art. 578 bis c.p.p. consentirebbe la confisca per equivalente anche in caso di sentenza dichiarativa della prescrizione di un reato commesso anteriormente alla sua entrata in vigore. La nuova disposizione sarebbe volta a sottrarre i patrimoni illecitamente accumulati anche in caso di estinzione del reato e si presenta in continuità con l’elaborazione della giurisprudenza di legittimità, costituzionale e della Corte EDU, sulla possibilità di disporre la confisca, anche di carattere sanzionatorio, allorché la declaratoria di prescrizione si accompagni ad un compiuto accertamento del fatto-reato e della responsabilità.

Sul punto, i fautori di tale orientamento ricordano che anche i giudici di Strasburgo hanno ribadito «la compatibilità con l’art. 7 della Convenzione EDU delle confische-sanzione fondate su accertamenti “sostanziali” di responsabilità» contenuti nel reato dichiarato estinto per prescrizione, purché la sanzione sia proporzionata al fatto.

Nella confisca per equivalente del prezzo o del profitto del reato, pertanto, convergerebbero evidenti finalità ripristinatorie, di semplificazione probatoria ed esecutiva, che le differenziano sostanzialmente da una pura e semplice pena patrimoniale. La confisca in discorso trova il proprio fondamento e limite nel vantaggio tratto dal reato, soprattutto dal momento che   ad essa è applicabile il principio di solidarietà passiva, proprio delle misure riparatorie, che limita la misura ablatoria alla quota di prezzo o profitto conseguito effettivamente e personalmente da ciascuno degli imputati»

Ancora, i sostenitori di siffatto indirizzo interpretativo, propendono per la natura processuale dell’art. 578 bis c.p.p., c.p.p., in quanto tale soggetto al principio “tempus regit actum”, dal momento che la norma censurata non introdurrebbe nuovi casi di confisca, limitandosi, al contrario, a perimetrare la cornice procedimentale entro cui può essere disposta la cd. ablazione senza condanna.

In definitiva, l’art. 578 bis c.p.p. agirebbe su un profilo squisitamente processuale e temporale, lasciando inalterati i presupposti sostanziali di applicazione del vincolo (legittimazione normativa e identificazione di beni di valore corrispondente al profitto). La natura in parte punitiva delle confische di valore impedirebbe l’applicazione retroattiva delle norme che le prevedono, ma non delle norme processuali che definiscono “quando” possono essere applicate.

Secondo questa impostazione, la norma de qua si limiterebbe, dunque, a stabilire che la confisca di valore può essere applicata nel giudizio di impugnazione anche quando sopravvenga l’estinzione del reato per prescrizione, ma sia confermato l’accertamento di responsabilità. Non si tratta, dunque, della introduzione di un nuovo caso di confisca, ma solo della definizione dei limiti temporali entro i quali la stessa può essere applicata in presenza di un accertamento di responsabilità sostanziale.

Un secondo orientamento – ferma l’applicabilità dell’art. 578 bis  c.p.p. anche alla confisca tributaria di cui all’art. 12 bis, D.Lgs. n. 74/2000 –  ritiene, al contrario, che quando la confisca sia disposta per equivalente non può essere mantenuta in relazione a fatti commessi prima dell’entrata in vigore del citato art. 578 bis c.p.p. in quanto, atteso il suo carattere afflittivo, produce effetti sostanziali e, pertanto, non può operare retroattivamente, sicché la soluzione accolta dall’opposto orientamento si porrebbe in contrasto con il combinato disposto degli artt. 25 Cost. e 7 CEDU, per l’inevitabile riflesso sostanziale caratteristico della confisca di valore.

Ciò deriverebbe dalla circostanza per la quale la natura sanzionatoria  costituisce il tratto distintivo e caratterizzante della confisca di valore, perché questa può attingere anche beni acquistati anteriormente o successivamente alla commissione del reato, ossia beni privi di connotati di pericolosità e di legami di pertinenzialità con l’illecito, per cui, anche a voler riconoscere alla confisca di valore una natura solo “parzialmente” sanzionatoria, resta ferma la sua natura afflittiva, in quanto l’oggetto dell’ablazione è rappresentato da una porzione di patrimonio che, in sé, non presenta alcun elemento di collegamento con il reato, con la conseguenza che, in relazione a tale forma di ablazione, si pone la necessità di garantire al destinatario una ragionevole prevedibilità delle conseguenze cui si esporrà trasgredendo la norma penale.

In questo senso, l’applicazione retroattiva dell’578 bis c.p.p. a fatti antecedenti alla sua entrata in vigore determinerebbe l’adozione di una pronuncia (in appello o in cassazione) impositiva di un sacrificio patrimoniale “a sorpresa” non prevedibile per il ricorrente, all’atto della commissione del reato.

Le SS.UU. inoltre, evidenziano che la Sezione rimettente, a tale proposito, ha introdotto un ulteriore profilo problematico, ovverosia se la disposizione di cui all’art. 578-bis c.p.p., nella parte relativa alle confische di valore, per quanto inserita nel codice di procedura penale, sia o meno da comprendere nel novero di quelle norme che dettano “norme penali”, agli effetti dell’art. 25, secondo comma, Cost., potendo da ciò dipendere la soluzione del problema.

Sul punto, potrebbe essere risolutivo valutare se la disciplina di cui all’art. 578 -bis c.p.p. attenga all’istituto della prescrizione. In merito a tale questione, la giurisprudenza costituzionale, proprio avendo riguardo alla disciplina della prescrizione, ha ripetutamente chiarito che un istituto che incide sulla punibilità della persona, riconnettendo al decorso del tempo l’effetto di impedire l’applicazione della pena, nel nostro ordinamento giuridico rientra nell’alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost.

Così richiamati i due orientamenti principali, le SS.UU. decidono di aderire (condivisibilmente) al secondo indirizzo interpretativo, fornendone una panoramica aggiornata.

In primo luogo, la pronuncia in esame ribadisce che, a seguito dell’introduzione dell’art. 578 bis c.p.p., la confisca per equivalente può oggi essere disposta anche in caso di sentenza del giudice dell’impugnazione che dichiara l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, anche se deve escludersi che il giudice di primo grado possa disporre la confisca per equivalente in caso di sentenza di proscioglimento per prescrizione.

Fatta questa premessa, le Sezioni Unite partono dal dato incontestato della natura “eminentemente sanzionatoria” della confisca per equivalente desumibile dal fatto che tale misura colpisce beni privi di alcun rapporto di pertinenzialità con il reato, caratteristica che, pur in costanza dei medesimi effetti (l’espropriazione di beni a favore dello Stato) ne svilisce la natura di misura di sicurezza patrimoniale, rendendo inapplicabile la regola stabilita, per le misure di sicurezza, dagli artt. 200 c.p.  236, co. 2 c.p., che consentono la confisca anche in caso di estinzione del reato).

Mentre la confisca diretta, reagendo alla pericolosità indotta nel reo dalla disponibilità di determinati beni, assolve a una funzione essenzialmente preventiva, la confisca per equivalente, poiché raggiunge beni che non hanno alcun rapporto con il reato, palesa una connotazione prevalentemente afflittiva. La funzione punitiva assolta dalla confisca per equivalente sottopone quest’ultima  alle regole sancite dall’art. 25 Cost., non essendovi ragioni per escluderne la natura di sanzione penale.

In definitiva, la funzione sanzionatoria della confisca per equivalente assorbe quella ripristinatoria e/o le eventuali altre concorrenti funzioni non penali, cui la confisca di valore si atteggi, e non viceversa.

Per queste ragioni, del resto, prima dell’introduzione dell’art. 578 bis c.p.p.., la giurisprudenza di legittimità non dubitava dell’assoluta impossibilità di disporre la confisca in assenza di condanna, costituendo la condanna stessa presupposto essenziale della sua applicazione, con conseguente impossibilità di disporre la confisca per equivalente in caso di prescrizione del reato.

Il suddetto principio deve essere tuttavia rivisto alla luce dei sopravvenuti mutamenti legislativi. Infatti, l’art. 6, comma 4, del decreto legislativo 1 marzo 2018, n. 21 ha inserito nel codice di rito l’art. 578-bis cod. proc. pen., in forza del quale “Quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell’articolo 240 bis del codice penale e da altre disposizioni di legge o la confisca prevista dall’articolo 322-ter del codice penale – parole, queste ultime, successivamente inserite dall’art. 1, comma 4 lettera f), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 –  il giudice di appello o la Corte di Cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato.

A questo proposito le Sezioni Unite hanno precisato che – al richiamo contenuto nell’art. 578-bis cod. proc. pen., ossia quanto al riferimento che la norma de qua opera alla confisca “prevista da altre disposizioni di legge” – deve riconoscersi una valenza di carattere generale, capace di ricomprendere, anche le confische disposte da fonti normative poste al di fuori del codice penale.

Da ciò deriva che l’art. 578-bis c.p.p. si applica anche alla confisca prevista dall’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, con la conseguenza che, in tema di reati tributari, il giudice di appello o la corte di Cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, devono decidere sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato.

Assodata la natura sanzionatoria della confisca di valore, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione relativa all’ambito applicativo dell’art. 578 bis c.p.p.

Ricordano che il primo orientamento, facendo maggiormente leva sulla funzione ripristinatoria della confisca per equivalente, attribuisce natura esclusivamente processuale alla disposizione, affermando perciò che la sua applicazione sarebbe retta dal principio “tempus regit actum”.

Il secondo indirizzo, invece, valorizzando la natura sanzionatoria della confisca per equivalente ed attribuendo all’art. 578 bis c.p.p. natura doppia (al contempo sostanziale e processuale), esclude l’applicabilità della disposizione ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della norma stessa, sulla base del divieto di retroattività connaturato alla natura penale dell’istituto.

Le Sezioni Unite, facendo proprie le conclusioni dell’indirizzo interpretativo da ultimo citato, chiariscono che il fatto che una norma, collocata topograficamente nel codice di rito, non disciplini i requisiti tipici di una incriminazione non vale ad escludere per ciò solo la natura sostanziale di essa e la sua sussunzione nell’area presidiata dal principio di legalità in materia penale e di tutti i suoi corollari esplicitamente o implicitamente enunciati da norme costituzionali poste a presidio dei diritti fondamentali della persona, tra cui il divieto di retroattività in peius delle norme penali.

Il divieto di retroattività delle leggi penali sfavorevoli ricomprende nel concetto di “punizione” e di “legge penale” tutte le norme che incidano negativamente sull’an, sul quantum e sul quomodo della punibilità. La chiave di lettura per risolvere il quesito posto dalla Sezione rimettente risiede, pertanto, nel principio di prevedibilità delle conseguenze dell’azione che è codificato dagli artt. 25, co. 2 Cost. e 7 CEDU.

Le due disposizioni, seppure non perfettamente sovrapponibili, condividono la medesima ratio legis:

l’esigenza di garantire al destinatario della norma una ragionevole prevedibilità circa le conseguenze cui si esporrà qualora decida di porsi in contrasto con l’ordinamento, violando la norma penale, talchè il tempo in cui è realizzata la condotta vietata è centrale rispetto alle modifiche temporali del quadro esistente al momento del compimento delle scelte individuali.

Tale conclusione è imposta dallo stesso il principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2 Comma Cost., il quale esige che, al momento del fatto commesso, il soggetto abbia non soltanto la necessaria conoscibilità del precetto (accessibility della norma violata), ma anche la conoscibilità e prevedibilità della sanzione penale (foreseeability) prevista per la relativa violazione, e quello del “nulla poena sine lege” di cui all’art. 7 CEDU, il quale non consente nemmeno l’applicazione retroattiva dell’interpretazione giurisprudenziale di una norma penale (il cd. “diritto vivente”), allorquando il risultato interpretativo non era ragionevolmente prevedibile nel momento in cui la violazione era stata commessa.

Nell’alveo della prevedibilità devono farsi rientrare, sottolineano le Sezioni Unite, tutte le conseguenze sanzionatorie della condotta, in modo da garantire l’effettiva prevedibilità anche di esse al momento della commissione del fatto, senza che il legislatore, modificando la normativa, possa realizzare nei confronti del destinatario un effetto “a sorpresa” e, dunque, imprevedibile, in quanto ciò si porrebbe in contrasto con l’ art. 7 CEDU e, quindi, con l’art. 117 Cost.

La prima garanzia per l’individuo, nell’ottica della Convenzione europea, consiste nell’esclusione della “sorpresa” e richiede invece la “prevedibilità” del limite posto dallo Stato al godimento di un diritto o all’esercizio di una libertà dell’individuo.

Da ciò si ricava, da un lato, un obbligo per lo Stato di una preventiva e adeguata informazione sui precetti da osservare nonché su tutte le conseguenze sanzionatorie che derivano dalla loro violazione e, dall’altro, il diritto dei cittadini di accedere e calcolare in un preciso arco temporale, se e quale comportamento tenere, avendo essi il diritto a non essere sorpresi ex post da estensioni interpretative o da mutamenti dello stato di fatto non conoscibili e, dunque, non prevedibili ex ante.

Quando una disposizione che il diritto interno definisce processuale influisce sulla severità della pena da infliggere, per la Corte EDU tale disposizione deve essere qualificata come «diritto penale materiale», cui è applicabile l’ultimo capoverso dell’art. 7 CEDU. Occorre pertanto avere riguardo all’intera disciplina «in forza» della quale si è o non si è «puniti». Il che porta a superare una visione tutta incentrata sul momento statico, pure importante, dell’incriminazione, incapace tuttavia di “leggere” le nuove forme di penalità e le questioni, che si agitano nel diritto vivente, sulla modifica della natura della pena, tradizionalmente intesa, e sul conseguente “ampliamento” del concetto di sanzione.

Gli Ermellini, inoltre, ribadiscono che in tema di successione di leggi penali nel tempo, nel caso in cui l’evento del reato intervenga nella vigenza di una legge penale più sfavorevole rispetto a quella in vigore al momento in cui è stata posta in essere la condotta, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della commissione del fatto, al fine di rendere la normativa interna coerente con la ratio di garanzia del principio di irretroattività ex art. 7, paragrafo 1, della CEDU, che sancisce il divieto di applicazione retroattiva delle norme penali incriminatrici e, in generale, delle norme penali più severe.

Invero, come è stato più volte precisato dai giudici di Strasburgo, è necessario che, nel momento in cui un imputato ha commesso il fatto che ha dato luogo all’azione penale, esista una disposizione legale che renda l’atto punibile. A fortiori, il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. esige altresì che, al momento del fatto commesso, il soggetto abbia non soltanto la necessaria conoscibilità del precetto, ma anche la conoscibilità e prevedibilità della sanzione penale prevista per la relativa violazione.

In definitiva, le Sezioni Unite riconoscono la natura duplice, sostanziale e processuale  dell’art. 578 bis c.p.p., trattandosi di norma non meramente ricognitiva di un principio esistente nell’ordinamento, sebbene non codificato, ma che ha natura costitutiva “in parte qua”, perché attributiva del potere, in precedenza precluso al giudice, di mantenere in vita una pena (la confisca per equivalente nel senso prima esplicitato) che, anteriormente all’introduzione dell’art. 578 bis c.p.p., non poteva, secondo il diritto vivente, in alcun modo essere applicata nel caso di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.

Una conclusione consimile esclude che la confisca di valore possa essere retroattivamente applicata a fatti-reato commessi quando tale misura non era in alcun modo adottabile come in caso di sentenza di proscioglimento per prescrizione ancorché pronunciata a seguito di pieno accertamento della responsabilità penale dell’imputato.

Nel caso di specie, le Sezioni Unite hanno riconosciuto che, nel momento in cui il ricorrente aveva realizzato le condotte addebitate, non era ragionevolmente prevedibile l’applicazione di una sanzione penale, come la confisca per equivalente, in assenza di una pronuncia di condanna in senso formale a seguito della realizzazione di un’infrazione penalmente rilevante.

Di qui l’affermazione dell’importantissimo principio di diritto in base al quale “«La disposizione dell’art. 578-bis cod. proc. pen. ha, con riguardo alla confisca per equivalente e alle forme di confisca che presentino comunque una componente sanzionatoria, natura anche sostanziale ed è, pertanto, inapplicabile in relazione ai fatti posti in essere anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 6, comma 4, d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, che ha introdotto la suddetta disposizione».

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Alessandro Villani

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