LA CONSULTA DICHIARA INCOSTITUZIONALE IL DIVIETO DI DEPOSITO IN APPELLO DI DELEGHE, PROCURE E ALTRI ATTI DI CONFERIMENTO DI POTERE NONCHÉ LA RETROATTIVITÀ DI TALE DIVIETO
(Corte Costituzionale, sentenza n. 36 depositata il 27 marzo 2025)
di Maurizio Villani e Marta Zizzari – Studio Legale Tributario Villani
PREMESSA
La Corte Costituzionale, con la recentissima sentenza n. 36 depositata il 27 marzo 2025, si è pronunciata su due questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Corti di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania e della Lombardia, rispettivamente, con le ordinanze nn. 170 e 199 del 2024.
Come meglio si dirà nel prosieguo, le Corti rimettenti avevano censurato l’art. 58, comma 3, D. Lgs. n. 546/1992, come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. bb), D. Lgs. n. 220/2023 – il quale prevede il divieto di deposito in appello di determinati documenti – nonché l’art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 220/2023 – ai sensi del quale la nuova formulazione del citato comma 3 dell’art. 58 si applica ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, nonché in Cassazione, a decorrere dal 05 gennaio 2024 (ossia dal giorno successivo all’entrata in vigore del medesimo D.Lgs. n. 220/2023) – in relazione agli artt. 3, 24, 102 e 111 Cost..
Ebbene, con la sentenza in commento, la Consulta ha dichiarato: a) l’illegittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, D.Lgs. n. 546/92, come introdotto dal D.Lgs. n. 220/2023, limitatamente alle parole “delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti,”. In particolare, secondo il giudice delle leggi, la sottrazione di tali atti alla regola generale prevista dal comma 1 del medesimo art. 58 – il quale consente la produzione di nova istruttori in appello se ritenuti dal giudice indispensabili ai fini della decisione o incolpevolmente non dedotti in primo grado – non risulta ragionevole, atteso che essi non presentano alcun tratto distintivo particolare per giustificare una simile deroga. Peraltro, escludere il deposito di quei documenti che attengono alla legittimazione processuale e sostanziale altera la parità delle armi e determina una compressione ingiustificata del diritto alla prova quando non è stata possibile la produzione degli stessi in primo grado per causa non imputabile alla parte. Nessun dubbio di costituzionalità sussiste, invece, con riferimento agli altri documenti menzionati dal medesimo comma 3 (ossia alle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono il presupposto di legittimità); b) l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 220/2023, laddove dispone che le nuove regole sulle prove in appello di cui al succitato comma 3 dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/92 si applicano anche ai giudizi di appello pendenti alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 220/2023, anziché “ai giudizi di appello il cui primo grado sia instaurato successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 220/2023”. Ciò in quanto, come chiarito dal giudice delle leggi, la successione di leggi processuali nel tempo non può pregiudicare situazioni verificatesi nei giudizi iniziati nel vigore della precedente normativa e ancora pendenti.
INQUADRAMENTO NORMATIVO
Il D. Lgs. n. 220 del 30 dicembre 2023, recante “Disposizioni in materia di contenzioso tributario” (in G.U. Serie Generale n. 2 del 03 gennaio 2024, in vigore dal 04 gennaio 2024), in attuazione della Legge delega n. 111/2023, ha previsto importanti modifiche in tema di processo tributario, tra cui la nuova disciplina in tema di nuove prove e nuovi documenti in appello.
In particolare, come meglio si dirà nel prosieguo, l’art. 1, comma 1, lett. bb), del D. Lgs. n. 220/2023 è intervenuto sull’art. 58 del D. Lgs. n. 546/1992, al fine di dare piena attuazione al principio espresso dall’art. 19, comma 1, lett. d), Legge delega n. 111/2023, ossia quello di “rafforzare il divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo”.
Prima di passare all’analisi della sentenza della Corte Costituzionale n. 36/2025 ed al fine di comprendere appieno la portata applicativa di tale pronuncia, occorre brevemente soffermarsi sulla formulazione dell’art. 58 D. Lgs. n. 546/92 ante e post riforma del D.Lgs. n. 220/2023.
La formulazione dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/1992 prima del D.Lgs. n. 220/2023
La previgente formulazione dell’art. 58 del D. Lgs. n. 546/1992, rubricato “Nuove prove in appello”, applicabile ai giudizi instaurati fino al 04 gennaio 2024, così prevedeva:
“1. Il giudice d’appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile.
2. È fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti.”.
Pertanto, prima delle modifiche apportate dal D. Lgs. n. 220/2023, nel procedimento di appello, il giudice non poteva disporre di nuove prove, ma era ammissibile la produzione di nuovi documenti.
Con riferimento al divieto di disporre di nuove prove di cui al comma 1, era previsto che il giudice potesse derogare tale divieto in due ipotesi: a) qualora le ritenesse necessarie ai fini della decisione. Sul punto, occorre evidenziare che, secondo la giurisprudenza di legittimità (ex multis: Cass. n. 35076/2023; Cass. n. 401/2023; Cass. n. 1491/2022; Cass., SS. UU. n. 10790/2017), si considerano “indispensabili” le prove di per sé idonee a fornire un contributo decisivo all’accertamento della verità materiale per essere dotate di un grado di decisività e certezza tale che da sole considerate, e quindi a prescindere dal loro collegamento con altri elementi e da altre indagini, conducano ad un esito“necessario” della controversia; b) ovvero qualora la parte dimostrasse di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile. In tal caso, il giudice riteneva ammissibile esclusivamente la prova che, pur introdotta per la prima volta in appello, fosse idonea a dimostrare un fatto già dedotto in primo grado.
Con riferimento, invece, alla produzione di nuovi documenti in appello, la previgente formulazione del comma 2 dell’art. 58 D. Lgs. n. 546/1992 faceva salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti in secondo grado.
Tuttavia, come più volte ribadito dalla Corte di Cassazione (ex multis: Cass. n. 11939/2023; Cass. n. 18103/2021; Cass. n. 29087/2018), la possibilità di produrre nuovi documenti in appello incontrava un limite nell’art. 32, comma 1, del D. Lgs. n. 546/1992, ai sensi del quale le parti possono depositare documenti fino a 20 giorni liberi prima della data di trattazione.
Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr.: Cass. n. 4662/2025; Cass. n. 31758/2024; Cass. n. 26564/2022; Cass. n. 32046/2021; Cass. n. 947/2019), l’inosservanza del termine perentorio di cui all’art. 32, comma 1, D.Lgs. n. 546/92 si considerava sanata “(…) ove il documento sia stato già depositato, benché irritualmente, nel giudizio di primo grado, poiché nel processo tributario i fascicoli di parte restano inseriti in modo definitivo nel fascicolo d’ufficio sino al passaggio in giudicato della sentenza, senza che le parti abbiano la possibilità di ritirarli, con la conseguenza che la documentazione ivi prodotta è acquisita automaticamente e “ritualmente” nel giudizio di impugnazione”.
Da tanto ne discendeva che, qualora il documento prodotto in appello non fosse già stato depositato in primo grado, il mancato rispetto del termine di cui all’art. 32, comma 1, del D. Lgs. n. 546/1992, stante la sua natura perentoria, veniva sanzionato con la decadenza e, di conseguenza, era inibito al giudice di appello fondare la propria decisione sul nuovo documento tardivamente prodotto (si veda ex multis: Cass. n. 11229/2020; Cass. n. 29087/2018; Cass. n. 366/2015).
Alla luce delle suesposte considerazioni, è evidente che la previgente formulazione dell’art. 58 del D. Lgs. n. 546/1992 ammetteva la produzione di qualsivoglia documento in appello, senza altra limitazione se non quella di cui all’art. 32 del medesimo decreto.
La formulazione dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/1992 dopo il D.Lgs. n. 220/2023
Come sopra anticipato, l’art. 1, comma 1, lett. bb), D.Lgs. n. 220/2023 ha riscritto interamente l’art. 58 del D. Lgs. n. 546/1992, prevedendo: 1) il divieto di disporre nuove prove e di produrre nuovi documenti in appello, salvo che il collegio li ritenga necessari ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averli potuti fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile (comma 1); 2) la possibilità di proporre motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti in primo grado, da cui emergano vizi degli atti o dei provvedimenti impugnati (comma 2); 3) il divieto di depositare le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti nonché le notifiche dell’atto impugnato ovvero gli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotte in primo grado (comma 3).
In particolare, la nuova formulazione dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/92, applicabile ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, nonché in Cassazione, a decorrere dal 05 gennaio 2024, così dispone:
“1. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.
- Possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti, non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado, da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti impugnati.
- Non è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis.”.
Ebbene, è evidente che la nuova normativa, oltre a confermare il divieto di ammissione di nuove prove in appello, prevede per la prima volta anche il divieto di produrre nuovi documenti.
Ed invero, ai sensi della nuova formulazione del comma 1 dell’art. 58 D. Lgs. n. 546/1992, non sono né ammessi nuovi mezzi di prova né possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.
Dalla lettura nella novella legislativa emerge ictu oculi che le due deroghe, previste dalla previgente formulazione dell’art. 58 D. Lgs. n. 546/1992 solo in relazione al divieto di nuove prove, ora si estendono anche al divieto di nuovi documenti.
Da tanto ne discende che il divieto di produrre nuovi documenti può essere derogato: qualora il collegio li ritenga “indispensabili” ai fini della decisione della causa: sul punto, si ritiene che un nuovo documento sia considerato “indispensabile” quando appare dotato di quella speciale efficacia dimostrativa che si traduce nella capacità di fornire un contributo decisivo all’accertamento della verità, conducendo ad un esito necessario della controversia; ovvero qualora la parte dimostri di non aver potuto produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile: si tratta dei casi in cui la parte non poteva disporre dei documenti in primo grado nonostante si sia attivata in tal senso.
Il nuovo comma 2 dell’art. 58 del D. Lgs. n. 546/1992 prevede che possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti, non prodotti in primo grado dalle altre parti in giudizio, da cui emergano vizi degli atti o dei provvedimenti impugnati.
In altri termini, ai sensi del nuovo comma 2 cit., la parte, la quale venga a conoscenza di vizi rispetto a documenti non prodotti in primo grado, è legittimata all’integrazione dei motivi anche in secondo grado rappresentando l’appello il primo atto difensivo con il quale la parte è posta in condizione di chiedere la nullità dell’atto impugnato per i vizi di cui ha avuto contezza successivamente.
La nuova formulazione del comma 3 dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/92, oggetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 36/2025, prevede che non è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti nonché delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotte in primo grado.
Dalla lettura della disposizione emerge la differenza tra il comma 3 in commento e il comma 1 del medesimo art. 58 cit. laddove: mentre il comma 1 prevede che non possono essere prodotti nuovi documenti, “salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”; al contrario, i documenti di cui al comma 3 non possono mai essere depositati in grado di appello. Si tratta, dunque, di un divieto assoluto e inderogabile.
Con riferimento alla decorrenza della nuova formulazione dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/92, l’art. 4 D.Lgs. n. 220/2023, rubricato “Entrata in vigore e decorrenza degli effetti”, al comma 2, così dispone:
“Le disposizioni del presente decreto si applicano ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, con ricorso notificato successivamente al 1° settembre 2024, fatta eccezione per quelle di cui all’articolo 1, comma 1, lettere d), e), f), i), n), o), p), q), s), t), u), v), z), aa), bb), cc) e dd) che si applicano ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, nonché in Cassazione, a decorrere dal giorno successivo all’entrata in vigore del presente decreto.”.
In altri termini, ai sensi del citato art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 220/2023, le disposizioni di cui all’art. 1, comma 1, lett. bb) si applicano ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado, nonché in Cassazione, a decorrere dal giorno successivo all’entrata in vigore del medesimo decreto, ossia dal 05 gennaio 2024.
Pertanto, ai sensi della citata disposizione, la nuova formulazione dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/92 si applica ai giudizi instaurati in secondo grado a decorrere dal 05 gennaio 2024.
LE QUESTIONI DI LEGITTIMITÀ SOLLEVATE DALLE ORDINANZE DI RIMESSIONE NN. 170 E 199 DEL 2024
All’indomani dell’entrata in vigore della nuova formulazione dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/92, nelle Corti di Giustizia Tributaria di secondo grado si è posto subito all’attenzione dei giudici il problema relativo all’applicazione del comma 3, a norma del quale non è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, nonché delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado.
Ed invero, come anticipato, il nuovo comma 3 dell’art. 58 cit., come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. bb), D. Lgs. n. 220/2023, è stato oggetto di due ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale.
L’ordinanza della C.G.T. di secondo grado della Campania n. 170/2024
Con l’ordinanza n. 170 del 09 luglio 2024, la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, D. Lgs. n. 546/1992, come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. bb), D.Lgs. n. 220/2023 per violazione degli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 102, primo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione.
Quanto al profilo della non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, i giudici rimettenti hanno denunciato anzitutto il contrasto con “il canone della ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost.”.
Sul punto, i giudici hanno osservato che l’ampia discrezionalità di cui gode il Legislatore nella conformazione degli istituti processuali incontra il limite della manifesta irragionevolezza.
Nella specie tale limite sarebbe stato superato, in quanto il comma 3 dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/92 priva il giudice del potere di delibazione sulla “indispensabilità” dei documenti nuovi che il primo comma, invece, espressamente gli concede.
In particolare, il Collegio rimettente ha rilevato che la disposizione censurata: per un verso, al comma 1, consente al giudice la valutazione della “indispensabilità” della documentazione prodotta soltanto in secondo grado; per altro verso, al comma 3, impedisce al medesimo giudice di compiere tale verifica “per una certa tipologia di atti”, quali sono le notificazioni, “ontologicamente indispensabili secondo l’anzidetta accezione”.
Ed invero, secondo la C.G.T. di secondo grado della Campania:
“È chiaro che il legislatore, nel novellare l’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, inserendo il denunciato terzo comma di assoluto nuovo conio nel generale panorama processuale, è incorso in un’autoevidente contraddizione: priva il giudice del potere di delibazione che il primo comma gli concede. Il che costituisce un indice sintomatico di irragionevolezza e illogicità intrinseca della disposizione, che, peraltro, come in seguito esplicitato, si traduce in un trattamento differenziato delle parti in lite privo di una valida ragione giustificativa. Altrimenti detto, deve reputarsi che il legislatore, sotto le spoglie del divieto di deposito di siffatta documentazione, non può compiere a monte egli stesso siffatto giudizio di indispensabilità, reso, peraltro, in senso negativo in modo imperscrutabile, non essendo stato osservato alcun criterio di razionalità pratica ispirato all’id quod plerumque accidit.”.
Tale perimetrazione in negativo della potestas iudicandi – ritengono i giudici remittenti – “si sostanzia anche in un’illegittima intromissione del legislatore in un ambito, quello della valutazione della indispensabilità del compendio istruttorio, riservato all’Autorità Giudiziaria”.
Quanto precede rappresenta – secondo i giudici rimettenti – non solo una violazione degli artt. 102, primo comma, e 111, primo comma, Cost., ma anche una menomazione del diritto di difesa di cui all’art. 24, secondo comma, Cost., qualificato dalla giurisprudenza costituzionale come principio supremo dell’ordinamento costituzionale e “inteso come diritto al giudizio e con esso a quello alla prova”.
Ed ancora, ad avviso dei giudici campani, accanto alla violazione dell’art. 3 Cost. e al delineato contrasto con il combinato disposto di cui agli artt. 102, primo comma, 111, primo comma, e 24, secondo comma, Cost., è registrabile anche un’antinomia dell’art. 58, comma 3, D.Lgs. n. 546/1992 con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., secondo la declinazione per cui il giusto processo, nel quale si attua la giurisdizione e si realizza il diritto inviolabile di difesa, comporta necessariamente che esso si svolga nel contraddittorio tra le parti, nonché – prescrive ulteriormente l’art. 111, secondo comma, Cost. – “in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”.
I giudici campani hanno ritenuto evidente la violazione del principio della parità delle parti nel processo dal momento che i loro poteri processuali in sede di gravame risultano disomogenei: mentre il privato può produrre nuovi documenti, sia pure negli attuali limiti fissati dall’art. 58, commi 1 e 2, D.Lgs. n. 546/92; al contrario, la parte pubblica non può produrre i documenti di cui al comma 3 dell’art. 58 cit. in presenza dei medesimi presupposti.
Sul punto, nell’ordinanza così si legge:
“Non può ignorarsi, infatti, che la tipologia specifica dei documenti annoverati dal citato comma 3 dell’art. 58, per le caratteristiche generali del diritto e del processo tributario e secondo una oggettiva regola di esperienza, riguardi gli atti che rendono legittima la pretesa tributaria della parte pubblica e, quindi, attenga all’attività difensiva che essa ordinariamente svolge. Secondo il dato testuale, peraltro, la produzione dei nuovi documenti indicati al comma 3 non sarebbe possibile neppure quando la necessità di tale versamento derivi dalle difese articolate nell’appello da parte del contribuente e/o dal deposito di documenti effettuato in conformità ai primi due commi dell’art. 58. La produzione dei documenti allegati all’atto di controdeduzioni in appello risulta indispensabile, ma non è consentita dall’art. 58.”.
Pertanto, la C.G.T. di secondo grado della Campania, ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, D.Lgs. n. 546/92, come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. bb), D.Lgs. n. 220/2023, per contrarietà agli artt. 3, 24, 102 e 111 Cost., ha ritenuto opportuno sospendere il giudizio a quo e rimettere gli atti alla Corte Costituzionale.
L’ordinanza della C.G.T. di secondo grado della Lombardia n. 199/2024
Con l’ordinanza n. 199 del 27 settembre 2024, la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Lombardia ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, D. Lgs. 546/92, come modificato dal D.Lgs. n. 220/2023, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali evocati nell’ordinanza della C.G.T. di secondo grado della Campania n. 170/2024 (artt. 3, 24, 102 e 111 Cost.).
Con l’ordinanza di rimessione in commento, il giudice a quo ha chiarito che il giudizio di primo grado era iniziato nel vigore dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/1992 nella formulazione anteriore alle modifiche allo stesso apportate dall’art. 1, comma 1, lett. bb), del D.Lgs. n. 220/2023, e che, tuttavia, il processo di appello, essendo stato incardinato il 09 febbraio 2024, in base all’art. 4 di tale decreto legislativo, soggiaceva alla nuova disciplina.
Pertanto, ad avviso del giudice rimettente, nel giudizio di appello era vietato produrre i documenti di cui al comma 3 del citato art. 58, in quanto introdotti in primo grado in modo irrituale.
Ebbene, secondo i giudici lombardi, la questione de qua non deve essere affrontata in termini generali, ma limitatamente all’applicazione della nuova disciplina durante la “fase transitoria” e, in particolare, ai ricorsi in appello proposti contro sentenze di primo grado emanate in vigenza della previgente formulazione dell’art. 58 cit., quando le parti non sapevano che in appello non avrebbero più potuto produrre documenti stante l’introduzione di una preclusione assoluta, prima inesistente, relativamente a determinate categorie di documenti (art. 58, comma 3) e che, comunque, la produzione di tutti i documenti non sarebbe più stata una facoltà della parte, essendo divenuta possibile solo al ricorrere di alcuni presupposti (art. 58, comma 1).
Ed invero, secondo i giudici rimettenti:
“in questa sede rileva la questione dell’immediata applicabilità della nuova disciplina e non la distinta e, almeno in parte, diversa e più delicata questione che concerne la legittimità della nuova disciplina in sé stessa e a prescindere dall’applicabilità anche nei casi sopra considerati. Non si vuole certo negare l’importanza che riveste anche questa questione che molte tematiche siano comuni. Le due questioni, tuttavia, restano distinte e, in astratto, possono portare anche a conclusioni differenti, risultando del tutto evidente che, specialmente sotto il profilo della razionalità e ragionevolezza, la mancata esclusione dell’applicazione del divieto di cui al comma 3 dell’art. cit. con riferimento ai giudizi in corso, faccia sorgere dubbi di legittimità costituzionale specifici e di ancor maggiore gravità.”.
A parere dei giudici lombardi, la nuova formulazione del comma 3 dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/92 contrasta con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, comma 1, Cost.
“nella parte in cui non esclude l’applicabilità del primo e del terzo comma dell’art. 58 cit. in tutti i casi in cui le parti non abbiano avuto la possibilità di decidere se produrre o meno nei termini documenti in primo grado, nella piena consapevolezza di non poterlo più fare in sede di appello (e cioè i giudizi pendenti in primo grado o, quanto meno, quelli per i quali alla data di entrata in vigore della nuova disciplina era già stata fissata l’udienza di discussione ed avevano quindi già cominciato a decorrere i termini per produrre documenti), a differenza delle parti dei giudizi avviati successivamente che potranno, invece, decidere cosa fare nella piena consapevolezza della situazione”.
Di conseguenza, ritengono i giudici di secondo grado, il nuovo comma 3 dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/92, come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. bb), D.Lgs. n. 220/2023, è una disposizione:
“non solo priva di fondamento nella legge delega ma anche del tutto irragionevole ed illogica specialmente se si considera la mancata previsione di una dilazione nel tempo dell’entrata in vigore del divieto in esame.”
Come si legge nella citata ordinanza, con specifico riferimento al combinato disposto degli artt. 102, primo comma, e art. 111, primo comma, Cost., nonché all’art. 24, secondo comma, Cost. (inteso dalla giurisprudenza costituzionale come “principio supremo” dell’ordinamento costituzionale – sentenze n. 18 del 2022, n. 238 del 2014, n. 232 del 1989 e n. 18 del 1982 – e come “diritto al giudizio e con esso a quello alla prova” – sul punto cfr. la sentenza n. 41/2024, che, a sua volta, richiama la sentenza n. 275/1990):
“si deve aggiungere che sussistono dubbi di legittimità costituzionale circa la previsione di un divieto assoluto di produrre determinate tipologie di documenti pur in presenza dei presupposti contemplati dal primo comma in tal modo interferendo nell’esercizio della funzione giurisdizionale e pregiudicando l’esercizio del diritto alla prova in una fattispecie che non riguarda solo il giudizio di secondo grado ma entrambi i gradi di giudizio che avrebbe imposto una considerazione complessiva dell’intera questione.
Per concludere sussistono dubbi di legittimità costituzionale anche con riferimento all’art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione, sotto il profilo della violazione del principio del «giusto processo» che deve svolgersi «nel contraddittorio tra le parti» e «in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale»”.
Pertanto, anche la C.G.T. di secondo grado della Lombardia, ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, D.Lgs. n. 546/92, come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. bb), D.Lgs. n. 220/2023, per violazione degli artt. 3, 24, 102 e 111 Cost., ha ritenuto opportuno sospendere il giudizio a quo e rimettere gli atti alla Corte Costituzionale.
LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 36/2025
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 36 del 27 marzo 2025, ha esaminato le questioni di legittimità sollevate dalle Corti di Giustizia tributaria di secondo grado della Campania e della Lombardia con le ordinanze sopra commentate nn. 170 e 199 del 2024.
Nello specifico, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, D.Lgs. n. 546/92, come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. bb) D.Lgs. n. 220/2023, limitatamente alle parole “delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti,”. Sul punto, la Corte ha evidenziato che:
“con la riforma di cui al d.lgs. n. 220 del 2023, il legislatore ha optato per un modello di gravame ad istruttoria chiusa, temperato dal riconoscimento della facoltà, per le parti, di introdurre in secondo grado prove nuove indispensabili ai fini della decisione o incolpevolmente non dedotte in primo grado.”
A fronte di una tale configurazione, come chiarito nella sentenza:
“la deroga alla regola della limitata acquisibilità di nova istruttori introdotta per le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere risulta priva di una ragionevole ratio distinguendi.”.
La Corte ha rilevato che la sottrazione di tali documenti (deleghe, procure e altri atti di conferimento di potere) “non trova appiglio nelle caratteristiche oggettive – strutturali, effettuali e funzionali – degli atti esclusi, non essendo rinvenibile in essi un elemento differenziale sul quale il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, possa costruire una disciplina diversificata”.
Al contrario, la Consulta ha evidenziato che i suddetti documenti non solo appartengono al più ampio genus delle prove documentali che l’art. 58, comma 1, cit. sottopone alla regola generale della producibilità in secondo grado, al ricorrere dei requisiti prescritti, ma – a differenza delle notificazioni dell’atto impugnato e di quelli presupposti – “non presentano tratti differenziali idonei ad incidere sul meccanismo di acquisizione di nova istruttori in appello”.
Inoltre, secondo il giudice delle leggi, la nuova disciplina, là dove inibisce il deposito delle deleghe, delle procure e degli atti di conferimento di potere, pur quando ne sia stata incolpevolmente impossibile la produzione in primo grado, comprime ingiustificabilmente il diritto alla prova, posto che, in tali ipotesi, “il processo di appello costituisce la prima e unica occasione per dedurre i mezzi di prova che non siano stati introdotti in primo grado per causa non imputabile alla parte”.
La Consulta ha, inoltre, dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, D.Lgs. n. 546/92, come introdotto dal D.Lgs. n. 220/2023, nella parte in cui non consente la produzione in appello delle “notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis”.
Ed invero, secondo la Consulta:
“Non contrasta, inoltre, con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost. né lede il diritto alla prova ex art. 24, secondo comma, Cost. e al contraddittorio ex art. 111, secondo comma, Cost. la scelta, alla base della previsione in scrutinio, di proibire il deposito delle notificazioni anche quando risultino indispensabili ai fini della decisione.”.
Come chiarito dalla Corte, rispetto alle notificazioni, il Legislatore ha ritenuto superflua l’operatività del modello temperato di cui all’art. 58, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992.
In tal modo il Legislatore ha inteso evitare che nelle controversie in cui si faccia questione della esistenza o della validità delle notifiche il giudizio di appello venga instaurato al solo fine di effettuare un deposito documentale che, pur essendo da solo sufficiente per la definizione del giudizio, sia stato omesso in prime cure.
A parere del giudice delle leggi, il divieto di deposito delle notifiche non è contrario alla Costituzione anche là dove non esclude dal proprio ambito di applicazione l’ipotesi in cui la parte dimostri di non aver potuto depositare il documento in primo grado per causa ad essa non imputabile.
Sul punto, nella sentenza così si legge:
“Rispetto alla notificazione degli atti tributari non è configurabile, sul piano logico, né l’ipotesi in cui il documento venga ad esistenza successivamente allo spirare dei termini per le deduzioni istruttorie del giudizio di primo grado in cui sia in contestazione l’atto notificato, né quella in cui l’amministrazione venga a conoscenza della sua esistenza solo dopo che sia maturata detta preclusione.
Ciò in quanto l’atto tributario produce i suoi effetti tipici per mezzo della notificazione, sicché o la notifica esiste – e quindi deve essere necessariamente conosciuta dall’amministrazione, sulla quale grava un dovere qualificato di documentazione del procedimento notificatorio e di conservazione e custodia dei relativi atti – prima che la pretesa impositiva venga azionata, oppure la stessa pretesa è da ritenersi inefficace ab origine e quindi non può essere fatta valere.”.
Con la sentenza n. 36/2025, la Corte Costituzione ha, altresì, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 220/2023 nella parte in cui prescrive che le modifiche previste dall’art. 1, comma 1, lett. bb) (che ha modificato il comma 3 dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/92) si applicano ai giudizi instaurati in secondo grado a decorrere dal giorno successivo all’entrata in vigore dello stesso decreto legislativo, anziché ai giudizi di appello il cui primo grado sia instaurato successivamente all’entrata in vigore del medesimo decreto.
In relazione alle diposizioni intertemporali, la Corte ha precisato che vige “il principio generale il quale esige che il passaggio da un previgente ad un nuovo regime processuale non sia regolato da norme manifestamente irragionevoli e lesive dell’affidamento nella tutela delle posizioni legittimamente acquisite”.
Nel caso di specie, come chiarito dal giudice delle leggi, il limite della ragionevolezza risulta superato. Ciò in quanto:
“per i processi nei quali, al momento dell’entrata in vigore della novella, siano già decorsi i termini per le produzioni documentali in primo grado, l’immediata efficacia del mutamento normativo determina conseguenze non dissimili da quelle della retroattività impropria, in quanto, frustrando l’aspettativa delle parti che hanno confidato nella possibilità di esercitare il loro diritto alla prova anche in appello, lede il legittimo affidamento, «da considerarsi ricaduta e declinazione “soggettiva” dell’indispensabile carattere di coerenza di un ordinamento giuridico, quale manifestazione del valore della certezza del diritto» (sentenza n. 108 del 2019).”.
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
Alla luce di quanto sopra esposto e volendo schematizzare, con la recente sentenza n. 36/2025, la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, D.Lgs. n. 546/92, come modificato dal D.Lgs. n. 220/2023, in relazione agli artt. 3, 24, 102 e 111 della Costituzione.
Nello specifico, la Consulta ha dichiarato: a) l’illegittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, D.Lgs. n. 546/92, limitatamente alle parole “delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti,”; b) non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, D.Lgs. n. 546/92, nella parte in cui non consente la produzione in appello delle “notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis”; c) l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 220/2023, laddove dispone che le nuove regole sulle prove in appello di cui al succitato comma 3 dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/92 si applicano anche ai giudizi di appello pendenti alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 220/2023, anziché “ai giudizi di appello il cui primo grado sia instaurato successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 220/2023”.