La felicità in Filangieri e altri grandi pensatori
Sant’Agostino ( 354-430 ) affermò che la felicità è il godimento della verità, che si identifica con Iddio stesso: “Chi pensa che esista un’altra forma di felicità, corre dietro ad un’altra gioia, ma non a quella vera, anche se la sua volontà non si distolga dall’immagine della gioia”.
Biagio Pascal (1623-1662) scrisse anch’egli sulla naturale propensione dell’uomo alla felicità spirituale, esprimendosi in questi termini: “Chi pensa che esista un’altra forma di felicità, corre dietro ad altra gioia, ma non a quella vera, anche se la sua volontà non si distolga dall’immagine della gioia”.
Giacomo Leopardi (1798-1837) sostenne l’illusorietà della ricerca spasmodica della felicità “se quello che gli uomini cercano – scrisse – vale lo sforzo e il dolore che costa, o se per avventura gli uomini non siano gioco di una spaventevole illusione, per cui si vadano allontanando dalla felicità per il furore stesso di conseguirla, e seguendo una disordinata foga degli appetiti, non facciano che alimentarne l’insaziabilità… l’uomo può essere felice solo a patto di essere qualche volta e in qualche parte infelice; contraddizione questa che giace in fondo a ogni forma di edonismo e che più si delinea e accentua, quanto esso si eleva”. La felicità per il grande recanatese consisteva nella temperanza dei desideri e nella semplicità della vita, mentre Lucrezio (I secolo avanti Cristo), con il quale Leopardi ebbe oggettivamente molte affinità, sviluppò una tesi di straordinaria ed avveniristica modernità, sostenendo che l’uomo progredendo non aveva fatto altro che raffinare i propri gusti e moltiplicare in tal modo i suoi bisogni, accrescendone l’ampiezza e l’intensità oltre i limiti del possibile. Pertanto la felicità, intesa come appagamento del desiderio e della conseguente quiete interiore, in realtà alimentando la tensione verso più alti e nuovi traguardi, era una condizione transitoria verso nuove mete e, quindi, paradossalmente, di nuove “infelicità”. Noi contemporanei sappiamo peraltro che siffatta forma di infelicità perenne – come già nell’Ulisse dantesco – è in realtà il motore stesso di ogni progresso degli uomini, che fatti non furono “a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.
Il poeta Kahlil Gibran (1883-1931) affermò che “le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto, ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno”. Benedetto Croce (1866-1952) colse l’essenza della felicità ne “la disposizione dell’anima, che sa cogliere il punto giusto, accettare la necessità del travaglio e del dolore ed insieme superarli”, riflettendo sul fatto che “non c’è gioia che non sia insieme timore, sollecitudine e turbamento”. Il naturaliter christianus Croce affermò che l’irrequietezza che accompagna la condizione umana, si placa solo attraverso la “coscienza dell’universale”, cioè la coscienza religiosa, che non è quella della devozione esteriore che si appaga di ritualità formali, bensì quella dell’uomo peccatore che cade e si rialza, ed attraverso la crisi interiore può innalzarsi ad “uomo morale ed eroe”.
All’elevazione morale concorre la cultura, nella consapevolezza che “la vita è continua educazione, che il sapere è unito all’imparare, che quando questa unità cessa, la vita si arresta, e non si chiama più vita, ma morte”. E sulla morte il Croce scrisse: “Vero è che questa preparazione alla morte è intesa da taluni come un necessario raccoglimento della nostra anima in Dio; ma anche qui occorre osservare che con Dio siamo e dobbiamo essere in contatto tutta la vita e niente di straordinario ora accade che ci imponga una pratica inconsueta. Le anime pie di solito non la pensano così e si affannano a propiziarsi Dio con una serie di atti che dovrebbero correggere l’ordinario egoismo della loro via precedente, e che invece sono l’espressione ultima di questo egoismo”.
Il sociologo polacco Zygmunt Bauman (1925-2017) osservò acutamente che “non è vero che la felicità significhi una vita senza problemi. La vita felice viene dal superamento dei problemi, dal risolvere le difficoltà. Bisogna affrontare le sfide, fare del proprio meglio. Si raggiunge la felicità quando ci si rende conto di riuscire a controllare le sfide poste dal fato”. Dopo questi rapidi cenni su come sia stato interpretato il concetto della felicità da alcuni grandi del passato con la stessa presunzione, da parte nostra, dell’angioletto di Sant’Agostino, che voleva raccogliere con una conchiglia le acque di un mare immenso), ci soffermiamo sul tema poco noto di una scienza del diritto che pose alle sue fondamenta la Felicità dell’Uomo, in un approccio tutt’altro che utopistico, ma radicato su solide e strutturate argomentazioni.
Ne fu autore Gaetano Filangieri (1752-1788), figura eminente dell’illuminismo riformista napoletano, fautore di una legislazione a carattere universale, per “facilitare a’Sovrani di questo secolo l’intrapresa di una nuova legislazione”. Nella sua Scienza della Legislazione, ebbe come finalità principale il tema della felicità, quale obiettivo di una moderna legislazione sistematicamente ordinata e orientata al bene comune, con delle intuizioni avveniristiche ed una straordinaria sensibilità economico- sociale, ancor più rimarchevole in relazione ai tempi in cui egli visse.
Il Filangieri fu l’anti Machiavelli (1469-1527) per eccellenza, in quanto rifiutò tutte le strategie volte ad anteporre la Ragion di Stato alla virtù individuale, alla verità, alla fedeltà, alla giustizia, all’umanità, compendiate nel noto principio del fine che giustifica i mezzi. Viceversa, il Filangieri sostenne che i governanti del suo tempo avevano progressivamente compreso che la vita e la tranquillità degli uomini, dovevano costituire il fine ultimo della loro politica. Vi era un mezzo indipendente dalla forza delle armi per giungere alla grandezza: “(Che) le buone leggi sono l’unico sostegno della felicità nazionale; che la bontà delle leggi è inseparabile dall’uniformità; e che questa uniformità non si può ritrovare in una legislazione fatta tra lo spazio di ventidue secoli, emanata da diversi legislatori in diversi governi, a nazioni diverse”.
Con la sua opera si prefissò che la filosofia potesse venire in soccorso ai governi, dato che “i Principi non hanno il tempo di istruirsi”, per cui la sua Scienza della Legislazione accanto alle evidenti finalità sistematiche e classificatorie, avrebbe perseguito soprattutto scopi morali. Prendendo le mosse da una esegesi delle norme degli Stati antichi e moderni, alla ricerca dei principi universali e sempiterni del Giusto, a soli 19 anni elaborò il piano generale della Scienza della Legislazione, che avrebbe utilizzato “per innalzare il gran tempio della felicità del genere umano”. Così “il suo genio già cominciava a formare il sublime disegno di illuminare l’Umanità, di migliorarla, di renderla felice, con il rivolgerle alla cognizione dei suoi veri diritti, ed alle più utili ed interessanti ricerche”.
Innanzi alla proliferazione di leggi, sovente mal redatte, oscure, contraddittorie, volle riscoprire i sempiterni principi del diritto naturale, scrivendo un’opera monumentale che potesse avere una valenza universale per tutti i popoli, i Paesi, i tempi, quindi sub specie aeternitatis. Distinse egli la bontà assoluta delle norme da quella relativa, consistente la prima nella consonanza con i principi della Natura, la seconda nel rapporto con il diritto codificato – cangiante nel tempo e nello spazio – determinato dal clima, dall’indole dei singoli popoli, dalla natura del terreno, dalla maturità del Popolo, dalla religione seguita, dall’estensione del Paese.
La tranquillità del singolo doveva essere garantita dalla “Possibilità di esistere con agio;libertà d’accrescere, migliorare e conservare la sua proprietà;facilità nell’acquisto dei generi necessari o utili pel comodo della vita, confidenza nel governo, confidenza né magistrati;confidenza negli altri cittadini, sicurezza di non poter essere turbato, operando secondo il dettame delle leggi”.Le quali ultime, se non giovavano alla società apportando uno dei benefici in parola, erano assolutamente inutili.
Divise la sua opera in sette libri: principi generali, leggi politiche ed universali, diritto penale, educazione ed istruzione pubblica, legislazione ecclesiastica, diritto di proprietà, diritto di famiglia. La stampa del tempo vi dette ampia risonanza, sicché quei libri conseguirono una notorietà ed un plauso internazionali; ma non mancarono in patria rilievi critici da parte di coloro che erano stati colpiti dalle sue argomentate condanne verso i privilegi feudali ed ecclesiastici, con la conseguenza che i suoi scritti finirono con l’incorrere nei rigori dell’Indice.
Nel campo penale Filangieri osservò che il timore della sanzione avrebbe potuto far diminuire il numero dei delinquenti, ma che il rimedio principale doveva essere la prevenzione da realizzare mediante l’Educazione (cioè l’istruzione), che doveva essere primariamente impartita attraverso la pubblica istruzione, funzionale al progresso della ragione.
“L’esperienza – affermò – è quella che mi fa vedere nelle moderne società europee la istruzione e i lumi diminuire i tristi effetti della corruzione, ed innalzare il solo argine che oggi si oppone ai progressi del dispotismo e della tirannide”. La virtù aveva “bisogno dell’istruzione pubblica, perché – scrisse – questa è necessaria per dettare le buone leggi, ed è necessaria per farle apprezzare e valere… in un popolo corrotto il passaggio dal vizio alla virtù suppone dunque il passaggio dall’ignoranza all’istruzione, dall’errore alla verità”.
“Bisognerebbe interamente ignorare l’istoria del progresso dello spirito umano, per ignorare i molteplici ed innegabili rapporti che vi sono tra l’istruzione pubblica e l’opulenza pubblica, tra lo stato del sapere e dè i lumi di un popolo e delle sue ricchezze. Cominciando dall’egizia e dalla caldea istoria, e discendendo fino ai nostri tempi, noi troveremo che dove comincia l’istoria del sapere, ivi cominciano i monumenti di questa mai mentita verità”.
Il Filangieri fu un cattolico non dogmatico, attentissimo alle condizioni degli ultimi, dei miseri, dei sofferenti, che erano in stridente contrasto con la fastosa opulenza delle classi più elevate. La sua “Scienza” venne entusiasticamente accolta in tutta Europa e costituì una vera propria summa della storia del pensiero giuridico illuministico, come comprovato dalle traduzioni che ne furono effettuate in francese, inglese, tedesco e spagnolo. Pur nella rapidità del suo intenso passaggio terreno – morì ad appena 38 anni – lasciò un’immensa eredità pedagogica ai posteri, i cui cardini furono l’elevazione dei cittadini attraverso la diffusione più ampia possibile dell’istruzione, l’armonizzazione dei privati interessi con il bene comune, il collegamento della moralità pubblica con l’elevazione della cultura.
Scrisse con lo scopo ben definito e la consapevolezza di poter adempiere ad una missione universale, affermando “non scrivete mai per un uomo, ma per gli uomini, unite la vostra gloria agli interessi eterni del genere umano. E il vostro genio sempre utile sarà allora il contemporaneo di tutte le età, il cittadino di tutti i luoghi”. Il suo intenso amore per la Patria, si innalzò a quello per l’intera umanità; il suo amore per la Giustizia, non scadde mai in un meschino rigorismo, avendo come orizzonte di riferimento la felicità universale, intesa non come metafisica astrazione, bensì come impegno costante di solidarietà verso gli afflitti, gli umili, gli oppressi, per i quali impegnò i suoi averi, restringendo le sue spese personali ai soli bisogni essenziali “con gentile e raffinata pietà, elargendo con discrezione non ostentativa i suoi non preveduti e non implorati soccorsi”.
L’intera sua pur breve vita, mirò ad elevare la condizione degli uomini, e nel suo studio solitario “mentre meditava in silenzio, la dolce immagine della felicità (la moglie) gli era sempre presente, e il rinfrancava nel corso delle più gravi fatiche e delle più lunghe vigilie”. Il sentimento sacro dell’amicizia fu sempre da lui intensamente avvertito, scevro “da què vani legami di convenienza e di rapporti, da quel reciproco commercio di modi apparenti e di velato amor proprio, di affettata sollecitudine e di indifferenza totale, cui – a torto – si accede un sì sacro nome: l’amicizia vestivasi (viceversa) nel suo cuore del più sublime carattere”.
La felicità fu dunque per il Filangieri un sentimento evangelicamente dativo e mai fuorviato da meschini, egoistici interessi, per cui – anche nel campo religioso – con profetica sensibilità considerò sempre i fratelli che erravano, non come delinquenti da punire, ma come infelici da scusare o ignoranti da istruire. Venuto a mancare in giovane età – come accennato – fu fonte esemplare di diritto ed etica per uomini della statura di Franklin (1706-1790), Goethe (1749-1832) e Napoleone (1769-1821), il qual ultimo lo considerò come un Maestro per l’umanità intera. La sua sensibilità cosmopolitica ed il suo spirito universalizzante lo collocano, a buon diritto, fra precursori ideali della comune Casa europea.
di Tito Lucrezio Rizzo