La c.d. “Grande Naturalizzazione” del 1889-1891 è stata introdotta con il “Decreto n. 58 A” emanato il 15.12.1889 dal Governo provvisorio brasiliano, confermata dalla Costituzione Brasiliana del 1891 (art. 69), secondo cui tutti gli stranieri di qualsiasi parte del mondo, e, quindi, anche gli italiani, presenti in territorio brasiliano alla data del 15.11.1889, giorno di proclamazione della Repubblica, avrebbero ottenuto la “naturalizzazione” automatica brasiliana a meno che non avessero manifestato entro sei mesi, dinanzi ai propri consolati, la volontà di permanere cittadini della nazione di origine.
L’Italia, colpita (non solo sul terreno simbolico della sovranità) dalla naturalizzazione di massa, reagì immediatamente dando vita ad un fronte diplomatico, comune con altri paesi interessati (Portogallo, Spagna, Impero Austro Ungarico), con il quale venne evidenziato l’assoluto contrasto del decreto brasiliano da un punto di vista internazionale.
Il Regno d’Italia fu quello che manifestò maggiormente la propria contrarietà, tant’è che a distanza di solo due mesi dall’emanazione del decreto in questione, il Presidente del Consiglio e ministro degli esteri italiano, carica all’epoca rivestita da Crespi, emanò una circolare (in data 30.12.1889) per vietare ogni operazione migratoria dall’Italia verso il Brasile.
Ci furono un susseguirsi di vive proteste e contestazioni sfociate tutte con l’assoluto disconoscimento di effetti giuridici del decreto della “grande naturalizzazione” per i cittadini italiani che non fecero alcunché per conservare la propria nazionalità con l’effetto di qualificare, oggi, tale inerzia con una tacita presunzione di consenso all’acquisto di una cittadinanza straniera, se pur imposta.
Per la dottrina e la comunità internazionale un ragionamento del genere fu ritenuto del tutto privo di fondamento giuridico poiché contrario ai principi internazionali di libertà individuale. Quindi il decreto di naturalizzazione collettiva brasiliana fu sempre osteggiato e ritenuto incompatibile con i principi di diritto internazionale. Senza considerare tra l’altro che nella stessa costituzione brasiliana fu demandato al congresso (art 43) di emanare leggi ad hoc in materia di naturalizzazione.
Ed a tal fine nel 1908 fu disciplinata la concessione della naturalizzazione mediante previsione di una formale richiesta. Per cui perde ogni sostegno il tentativo di voler ravvisare in un comportamento negativo, ossia per non aver optato, nei prescritti termini del decreto brasiliano, per mantenere la cittadinanza di origine, una presunzione tacita di consenso alla naturalizzazione, poiché fu lo stesso governo brasiliano a regolamentare e prevedere la necessità di una espressa manifestazione di assenso o dissenso in materia di status civitatis.
L’infondatezza e l’incompatibilità con il sistema giuridico nazionale ed internazionale fu confermata anche dalla giurisprudenza, sia di legittimità che di merito. Già dalle prime pronunce risalenti alla Corte di Cassazione di Napoli fino alle odierne statuizioni del tribunale Capitolino, fu chiaramente rigettata la tesi della grande naturalizzazione brasiliana in virtù di una univoca lettura interpretativa dell’art. 11, c. 2, del Codice civile del regno del 1865.
Concordemente i giudici considerarono detta norma disciplinante l’ipotesi in cui il cittadino abbia, con un atto positivo, espressamente dichiarato la volontà di conseguire la cittadinanza straniera e l’abbia ottenuta.
Il termine “ottenere”, fisiologicamente, presuppone una domanda.
E tale indirizzo venne confermato in diverse pronunce delle Corti di Appello nazionali.
Fu, quindi, categoricamente esclusa una “tacita naturalizzazione” e, per l’effetto, venne ritenuta priva di efficacia vincolante la imposta naturalizzazione di massa.
In altri termini, un individuo non può essere dichiarato cittadino di un altro Stato contro la sua volontà né tantomeno la sua inerzia può assurgere ad accettazione tacita di una cittadinanza straniera imposta attraverso una naturalizzazione di massa.
E’ notorio che un diritto ottenuto a prescindere da una domanda non appartiene al nostro sistema giuridico né una concezione del genere è rinvenibile nei retaggi dei previgenti sistemi.
E vi è di più: gli stranieri presenti, all’epoca della “grande naturalizzazione”, in territorio brasiliano erano in gran parte braccianti agricoli, analfabeti, che neppure lontanamente vennero a conoscenza di un provvedimento governativo straniero. Addirittura neanche le autorità consolari locali dell’epoca ne presero conoscenza, atteso che migliaia di italiani muniti di passaporto italiano rientrarono in Patria, compresi coloro che vivevano in Brasile prima del 1889.
Ragion per cui appare priva di fondamento la tesi erariale secondo cui coloro che nacquero in Brasile in data antecedente al 1° luglio1912 (entrata in vigore della prima legge organica in materia L. 555/1912) non potessero possedere la doppia cittadinanza.
La prova inconfutabile è rappresentata dalle migliaia di trascrizioni anagrafiche, effettuate senza alcuna obiezione dell’amministrazione statale italiana, di cittadini italiani nati appunto prima del 1912.
In una nota pubblicazione del 2003 la stessa amministrazione statale italiana (Ministero dell’Interno) ha evidenziato che la normativa succedutasi nell’ultimo secolo non prevede soluzioni di continuità nell’istituto dell’attribuzione della cittadinanza a titolo originario, ma fin dal codice civile del 1865 è stato pacificamente ritenuto italiano il discendente di cittadino nato all’estero ed ivi residente.
In sostanza non si riesce a comprendere l’atteggiamento odierno per così dire d’insofferenza che il Ministero dell’Interno manifesta nei confronti di discendenti di ceppo italiano che nelle varie generazioni hanno sempre mantenuto, con una certa affezione, un contatto con la Patria di origine, come testimoniano le migliaia di richieste consolari e giudiziarie di ricognizione dello status civitatis evase e pendenti.
Appare mortificante per coloro che si sentono e sono italiani vedersi umiliati e rifiutati dal proprio Stato di origine.
In definitiva, ravvisare una sorta di rinuncia tacita alla propria cittadinanza, da parte degli immigrati italiani che all’epoca del 15.11.1889 vivevano in territorio brasiliano ed ivi non avevano manifestato espressa volontà di conservare la cittadinanza di origine, è del tutto inconcepibile.
In ragione della natura di diritto assoluto, inviolabile ed imprescrittibile, la cittadinanza può perdersi solo ed esclusivamente in virtù di una rinuncia esplicita e volontaria.
La tesi della rinuncia implicita rappresenta un vano tentativo dell’odierna amministrazione Statale di evidente politica dissuasiva per la tutela giudiziaria che oramai si è consolidata quale unica e certa via per ottenere il riconoscimento del diritto di cittadinanza.
Difatti il medesimo atteggiamento ostruzionistico non è stato mai assunto dalle amministrazioni consolari né tantomeno dalle amministrazioni comunali italiane.
Il fine meramente dilatorio oltre che defatigatorio assunto dall’avvocatura di Stato risulta evidente nell’assoluta mancanza di sostegno probatorio della sollevata tesi di rinuncia implicita per la grande naturalizzazione.
Nessuna documentazione idonea o probante è stata fornita dalla difesa erariale a sostegno della propria tesi che, invece, appare clamorosamente smentita dalla CNN (attestazione negativa di naturalizzazione) rilasciata dal governo Brasiliano e comprovante, sia in sede amministrativa che giudiziaria, la circostanza della mancata naturalizzazione straniera del dante causa e, per l’effetto, l’intervenuta trasmissione dello status civitatis italiano ai propri discendenti in linea retta, status appartenente loro di diritto senza limiti generazionali fin dai tempi della proclamazione del Regno d’Italia.
I giudici capitolini chiamati a decidere in merito alla questione della grande naturalizzazione si sono subito espressi in senso negativo ovvero rigettando in toto l’eccepita linea interpretativa ministeriale.
Il Tribunale romano ha ritenuto che la norma straniera (decreto di naturalizzazione del 1889) debba essere necessariamente posta in stretta correlazione con le disposizioni del Codice civile del 1865 all’epoca vigente e ciò perché, secondo le norme del diritto internazionale, le leggi estere non possono in nessun caso derogare alle leggi proibitive del regno concernenti le persone, i beni e gli atti, ed a quelle riguardanti in qualsiasi modo l’ordine pubblico ed il buon costume.
Quindi, l’applicazione della c.d. grande naturalizzazione non può prescindere dall’art. 11, comma 2, del Codice civile del 1865, il quale prevedeva che la cittadinanza si perdeva in caso di ottenimento della cittadinanza estera, interpretando simile dicitura nel senso che l’acquisto della cittadinanza straniera non implica la perdita automatica della cittadinanza italiana, la quale richiede che detto acquisto sia avvenuto spontaneamente ovvero, se verificatosi senza il concorso della volontà dell’interessato, che sia stato seguito da una dichiarazione di rinuncia alla cittadinanza italiana.
Non solo. I Giudici, interpellati recentemente sul punto, hanno anche tenuto conto della giurisprudenza nazionale formatasi in passato sull’inapplicabilità di tale norma brasiliana nell’ordinamento italiano. In particolare, è stata messa in risalto la sentenza della Corte di Cassazione di Napoli, Udienza 5 ottobre 1907, secondo cui la parola “ottenere” con riferimento alla cittadinanza presupponeva ontologicamente una preventiva richiesta dell’interessato, e dunque, nel caso della naturalizzazione, l’ottenere presupponeva l’avere prima domandato. Pertanto, la Corte di Cassazione di Napoli aveva già concluso per l’impossibilità di presumere la rinunzia alla propria nazionalità sulla base di un comportamento meramente negativo, senza averne “la prova chiara ed esplicita”.
In senso conforme, nelle recenti pronunce suddette, si legge: “La conclusione – pur formulata da giurisprudenza risalente nel tempo – appare coerente con la natura stessa del diritto di cittadinanza, personale ed assoluto, che può perdersi solo in forza di una rinuncia volontaria ed esplicita; in altre parole dal fatto negativo del mancato esercizio della rinuncia alla cittadinanza brasiliana non può discendere l’automatica perdita della cittadinanza italiana. In questo senso l’art. 8 della L.555/1912, che pone in evidenza come la rinuncia alla cittadinanza debba sostanziarsi in un atto consapevole e volontario, si può ritenere in linea di continuità con il Codice civile del 1865.
La giurisprudenza italiana, con riferimento alla c.d. Grande Naturalizzazione brasiliana, ha ribadito che il diritto soggettivo permanente ed imprescrittibile dello stato di cittadino non può perdersi automaticamente in caso di mancato esercizio di una rinuncia espressa ad una cittadinanza imposta per naturalizzazione di massa da uno stato estero.
In conclusione, i cittadini italiani che erano in Brasile nell’epoca della “Grande Naturalizzazione” del 1889-1891, che è stata introdotta con il “Decreto n. 58 A” emanato il 15.12.1889 dal Governo provvisorio brasiliano, non hanno mai rinunciato alla loro cittadinanza italiana, anche perché non sono mai diventati cittadini brasiliani, sia legalmente, sia volontariamente e sia spontaneamente naturalizzati.
Chi va contro questa realtà e fa finta di non conoscere la triste immigrazione degli italiani all’estero, sfortunatamente non conosce la storia e non ha nessun rispetto o considerazione con la sofferenza di centinaia di migliaia di cittadini italiani e italiane che sono stati costretti ad emigrare per non morire di fame dopo l’unificazione del Regno d’Italia.
Non si sa ancora con certezza se sfortunati furono quelli italiani che sono stati gettati in mare, perché morirono dopo aver contratto gravi malattie durante i 30 giorni di viaggio in condizioni disumane, senza cibo o acqua; oppure quelli che arrivati in Brasile, gravemente malati e deboli, ingannati con le illusioni di una bella “terra promessa” di grandissime opportunità, sostituirono in quei luoghi il lavoro degli schiavi africo-brasiliani in un crudele regime di semi schiavitù che ha perdurato per decine di anni!