L’attualità del pensiero di Francesco Saverio Nitti

Tempo di lettura stimato: 6 minuti

Le polemiche già a suo tempo ricorrenti sul federalismo, riguardarono un fenomeno emerso contestualmente alla crisi dei partiti tradizionali dopo la caduta del Muro di Berlino (senza la quale neanche Tangentopoli avrebbe mai potuto aver avuto origine). La pasticciata riforma del Titolo V della Costituzione, formalmente motivata dalla necessità di valorizzare le autonomie locali – e quelle regionali in particolare – in realtà scaturì dalle perduranti istanze economiche basate sui differenti tassi di sviluppo tra il Nord e il Sud, sul diverso impegno finanziario dello Stato nelle due aree, sulla differenza delle risorse rispettivamente disponibili: insomma su di una ritenuta, irreversibile diseguaglianza strutturale, che vede ancora oggi l’Italia sin dalle origini divisa in due, sotto il profilo economico-sociale, con differenti tassi di crescita e di investimenti.

Nel mezzo dell’emergenza Coronavirus venne riesumato il progetto di “due Italie”, che ora si ripresenta con il nome di autonomia differenziata, la quale non è altro che la diversa configurazione di un Paese a due velocità diverse, tra Nord e Sud.

Remote analisi e convinzioni al riguardo, possono trovarsi già all’indomani dell’Unità, nell’incomprensione della miseria del Meridione agricolo da parte delle masse popolari settentrionali, che avevano ritenuto il Sud una palla di piombo per l’Italia, senza la quale il Nord avrebbe potuto realizzare assai più marcati progressi economici: ne riferiva criticamente Epicarmo Corbino nei suoi Annali agli inizi degli anni Trenta del secolo trascorso.

Tutto ciò premesso, desideriamo evidenziare la sempre viva attualità il libro Nord e Sud di Francesco Saverio Nitti (Melfi 1868- Roma 1953), ancor oggi illuminante per lo spessore delle analisi ivi contenute su di una realtà troppo spesso oggetto di frettolose analisi e semplificazioni, come lucidamente ebbe a rilevare lo stesso autore oltre un secolo fa.

Il libro in questione era la felice sintesi, a carattere divulgativo, di un’opera più ampia e documentata uscita nel maggio 1900 in appena cento esemplari, come estratto degli Atti del Reale Istituto di Incoraggiamento di Napoli, dal titolo “Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97. Prime linee di un’inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese pubbliche in Italia”. Nord e Sud fu il testo che conferì la maggior fama al Nitti come studioso meridionalista, suscitando al contempo consensi e critiche, quest’ultime da parte di quanti vollero leggervi – a torto – intendimenti antiunitari. L’autore, ordinario di Scienza delle Finanze e Diritto finanziario, giornalista di fama ed apprezzato conferenziere nelle maggiori città italiane, trattò una materia – altrimenti assai arida – con un fluido nitore espositivo che rese accessibili al più vasto pubblico analisi intrinsecamente complesse.

Il giudizio di Giustino Fortunato, per il quale risultava provato il fatto che lo Stato italiano aveva profuso i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali, dovette avere non poca influenza sul giovane Nitti, considerato dal deputato Roux (suo primo editore dell’opera in parola) una “creatura fatta coll’aiuto del Fortunato”, come ebbe a scrivere a Giovanni Giolitti. Tuttavia quella del giovane economista fu un’analisi tutta nuova ed originale, supportata da puntuali e documentati riferimenti statistici, atti a dimostrare – inequivocabilmente – il dato oggettivo di un costante “drenaggio” di risorse finanziarie dal Sud al Nord, specialmente attraverso la vendita (o meglio la svendita) dei beni ecclesiastici e demaniali, nonché della rendita pubblica. Sul finire del XIX secolo, il futuro statista rilevava che le regioni più povere (Basilicata, Puglia e Calabria), erano quelle dove lo Stato spendeva meno in proporzione, rispetto a quelle del Nord, ben più ricche. Sorprendente, rispetto a quanto scritto dalla storiografia più diffusa, è il dato che alla vigilia dell’Unità, il Regno di Napoli era il più accreditato d’Italia per la sua solidità finanziaria, avvalendosi di un sistema impositivo semplice, poco gravoso e ben armonizzato, che poteva sintetizzarsi nella politica di “poche opere pubbliche, niente scuole, ma niente tasse”. 

Tutto il contrario del Regno di Sardegna, dove le imposte erano esorbitanti, con un enorme debito pubblico ed il rischio ricorrente di bancarotta; ma a fronte di tale sovraesposizione finanziaria, nel 1860 il Piemonte aveva una vasta rete stradale, numerose ferrovie, canali ed opere pubbliche, i cui oneri, più che le spese per il moto unitario, erano state la causa vera del suo disavanzo di bilancio. Illuminante è la riflessione del Nitti sullo spirito che animò i protagonisti del Risorgimento: “È un grave torto – scrisse – credere che il movimento unitario sia partito dalla coscienza popolare. È stato la conseguenza dei bisogni nuovi delle classi medie più colte; ed è stato, più che altro, la conseguenza di una grande tradizione artistica e letteraria”. Sotto il profilo fiscale, l’unificazione tributaria avvenne con l’estensione a tutto il Regno del sistema sabaudo, certo più redditizio in prospettiva della politica degli investimenti necessari alla modernizzazione dell’intero Paese, ma assai più oneroso per le popolazioni del Sud, a ben altro regime avvezze, non conoscendo – per esempio – né le imposte di successione, né quelle di ricchezza mobile e sui trasferimenti.

Nulla di eccezionale, tuttavia, rispetto alla Communis ratio che ispirò l’intero sistema della legislazione unitaria in tutti i campi, tanto che la prevalente dottrina parlò giustamente di “piemontesizzazione” del diritto. Dopo l’Unità le regioni del Nord videro alleggerirsi di molto il loro pregresso carico tributario, che pesò con particolare onerosità sul Meridione, la cui ricchezza era stata (volutamente?) sovrastimata dai nuovi governanti. La tariffa doganale introdotta nel 1887 fu un altro colpo inferto all’economia agricola del Sud, i cui prodotti (agrumari, oleari e vinicoli in gran parte), risentirono del calo delle esportazioni, mentre ne trassero vantaggio le industrie metallurgiche, del cotone e della lana del Nord, per cui in breve, innanzi all’aumento delle uscite dovute alle imposte, le popolazioni del Sud dovettero subire la caduta libera delle entrate per i prodotti della terra, che ne costituivano la più cospicua fonte di sostentamento. Crollarono le esportazioni dei beni tipici dei campi, costituenti la tradizionale ricchezza del Sud agricolo, che – viceversa – dovette acquistare a prezzi sempre più onerosi i prodotti industriali del Settentrione, rispetto al qual ultimo si trovò a costituire vero e proprio mercato interno di consumo, come se fosse una colonia.

Come l’imposta fondiaria colpiva assai più l’estensione della terra che il reddito realmente prodotto dalla medesima, del pari l’imposta sui fabbricati, esentando quasi del tutto le Regioni a minor densità abitativa (tali erano quelle del Nord), incideva ben più marcatamente sulle Regioni del Sud, dove la popolazione viveva agglomerata in pochi centri urbani. Ma c’è di più: l’autore denunziò l’esistenza di vaste aree di evasione fiscale al Nord, dove gli scambi manifatturieri potevano sottrarsi agli accertamenti dei volumi ad essi relativi, ben più agevolmente della ricchezza (presunta) della terra. L’onere per l’istruzione, impartita prevalentemente nel Centro-Nord, colpiva in proporzione molto più alta nel rapporto costi-benefici, le aree del Sud. In materia militare, premesso che circa la metà del bilancio totale dello Stato veniva impegnata per le spese dei ministeri della Guerra e della Marina, vari miliardi (di allora!) furono quasi tutti investiti in scuole militari, caserme, cantieri e stabilimenti per costruzioni belliche siti al Nord, che ne fu favorito nella prima grande formazione di capitali e nella correlativa nascita della grande industria.

In materia di insegnamento, la maggioranza delle università e degli istituti di istruzione superiore fu, del pari, realizzata nel Centro-Settentrione, per cui era quanto mai disagevole pervenire ad un livello di cultura elevata nel Sud, fatta qualche eccezione come l’Università di Napoli. Altra disfunzione sottolineata dal Nitti, fu quella della ripartizione degli uffici giudiziari dove, a fronte di più alti tassi di criminalità e di litigiosità legati alla miseria delle popolazioni locali, detti uffici risultarono sottodimensionati proprio al Sud, mentre nel Centro-Nord esistevano preture inutili per l’assenza di carichi di lavoro di un qualche rilievo. Aggiungasi che mentre nel Mezzogiorno le tasse giudiziarie rendevano assai più che nel resto d’Italia, lo Stato spendeva proporzionalmente assai meno per le magistrature civili e penali ivi esistenti. In tema di lavori pubblici, tenuto conto in proporzione della popolazione e dell’estensione dei territori, risultò che per il Meridione la spesa pubblica era stata assai inferiore rispetto al Nord, circa la realizzazione di strade, ferrovie, opere idrauliche, bonifiche, lavori marittimi e portuali: andava pertanto sfatata la leggenda “falsa ed immorale” del Sud che aveva approfittato in misura maggiore delle opere pubbliche, con asserito danno all’Erario ed ingiustizia verso le altre Regioni.

Vero era, al contrario, che era stato effettuato un continuo travaso di risorse dal Mezzogiorno al Nord, il qual ultimo risultava statisticamente beneficiario della maggior parte dei grandi appalti, delle pubbliche sovvenzioni alle imprese, dei monopoli consentiti alle stesse. Nel Mezzogiorno d’Italia, in estrema sintesi, le Regioni non solo davano di più in tributi rispetto alle proprie risorse, con conseguenti espropri di terreni dei contribuenti vessati, ma anche percepivano meno servizi rispetto alle somme erogate, se si effettuava una doverosa comparazione con quelle del Nord. Quanto alla ripartizione dei pubblici dipendenti in base alle zone di rispettiva provenienza, malgrado i luoghi comuni ricorrenti in senso opposto, era riscontrabile una netta preponderanza numerica della burocrazia civile e militare centro-settentrionale su quella meridionale, ancor più schiacciante nelle alte sfere, e tutto ciò malgrado il più alto numero di cittadini del Meridione. Nitti dette sì atto dei vantaggi che il Sud aveva conseguito dopo l’Unità in ordine all’elevazione culturale e civile delle popolazioni locali, dell’ampliamento della rete stradale e di altri benefici in “gran parte di carattere etico”; ma – dovette in ultimo sconsolatamente riconoscere – il Sud medesimo dopo il 1876 (data dell’avvento della Sinistra al potere) era divenuto preda di clientele elettorali e di malcostume politico, con “città intere nelle mani di veri briganti politici, la cui funzione infame è quella di formare i pretoriani di tutti i ministeri”.

Nessun anti-unitarismo è dato in conclusione ravvisare nell’opera complessiva dell’autore, che si connota a distanza di oltre un secolo come una puntuale analisi storico-economica e politica, da cui si evince che il Sud tutto non fu, come vorrebbe volgare fola, un fardello passivo nella costruzione nazionale, ma un serbatoio di risorse che ne agevolò viceversa – e seppure con immensi sacrifici – la compiuta realizzazione. Dato questo non ben chiaro ad un pur illustre, brillante e colto (il che è un’aggravante) direttore di giornale, che sguaiatamente intervenuto alla trasmissione Fuori dal coro, affermò che – a suo avviso – “i meridionali, in molti casi, siano inferiori”.

In “ingravescentem aetatem”  può accadere di parlare senza rendersi conto di ciò che si dice………

Pubblicato da:

Tito Lucrezio Rizzo

Condividi su facebook
Condividi su whatsapp
Condividi su twitter
condivisi su linkedin
Condividi su pinterest
condividi per email
Commenti
Subscribe
Notificami
guest
0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments

Advertising