Non puoi capire il presente, né pensare al tuo futuro, se non conosci il tuo passato.
Sembra una frase fatta ma è proprio così. In un certo senso qualche secolo fa lo diceva anche Giambattista Vico nei suoi “corsi e ricorsi storici”.
Sarà forse in una sorta di atavico bisogno di conoscere le proprie origini che risiede il motivo per cui chi vi scrive (che non è uno storico di professione) ama moltissimo la Storia, soprattutto quella romana, etrusca e alto medievale. Praticamente quella di Roma antica e dintorni.
Sappiamo tutti cosa è la ricca e vecchia Europa: non più solo un insieme di Stati o una mera estensione geografica, ma anche (al netto dei paesi non UE) l’Unione politica, giuridica ed economica suggellata da svariati Trattati europei, primo fra tutti quello firmato (forse non è un caso) proprio a Roma il 25 marzo 1957. E’ innegabile che tutti gli operatori del diritto (e non solo) devono oggi fare i conti anche con questo nuovo assetto giuridico-istituzionale sovranazionale e i princìpi e gli organismi da esso espressi.
Oggi molti eventi stanno mettendo a dura prova questa relativamente nuova realtà istituzionale sovranazionale ponendo domande cruciali per il futuro dell’Europa: crisi economica, immigrazione, pandemia, solidarietà.
Dunque è bene interrogarsi su cosa è l’Europa, su come si è arrivati a questa entità e soprattutto su cosa significa per tutti noi essere europei.
L’Europa (detta non a caso il vecchio continente) è il risultato di quasi tremila anni di vicissitudini che, come sempre avviene nelle esperienze umane a cui assistiamo a tutte le latitudini e a tutte le longitudini, sono piene di luci e ombre.
Al di là di questo, l’odierna Europa è il risultato dell’evoluzione di un modo di intendere lo Stato, la Società e l’Uomo che parte da lontano, molto lontano. Ma anche da molto, molto vicino a noi. Talmente vicino al punto che spesso ce ne dimentichiamo non rendendoci conto che tutto quello che accade oggi altro non ne è che la ripetizione.
Questo mio scritto è meno di una goccia del Mare Magnum di una lunga e avvincente storia che proverò, indegnamente, a raccontare.
Cercherò di sintetizzare al massimo questo meraviglioso e lunghissimo viaggio sperando che nel corso della sua narrazione il lettore non cambi pagina, magari pensando: “Ma che c’entra tutto questo con l’Europa?”.
Ebbene, tanti secoli fa, lungo le rive del fiume Tevere, ai piedi del Colle Palatino e nei pressi del Tempio di Ercole Vincitore (oggi detto impropriamente di Vesta), c’era un villaggio di poche capanne che da tempo era diventato il ricettacolo della peggior risma di criminali.
Costoro vi si riparavano dopo averne combinata qualcuna delle loro in qualcuno dei vicini popoli del centro della penisola italica.
Un luogo paludoso, assai poco salubre e men che meno raccomandabile.
Due di loro, fratelli gemelli (che secono la leggenda erano discendenti diretti di Enea, Venere e Marte), erano nati ad Alba Longa da Rea Silvia. Il padre di lei, Re Numitore, era stato spodestato da Amulio che, temendo che da grandi potessero vendicare il nonno, ordinò che quei bambini (Romolo e Remo) fossero eliminati.
L’uomo incaricato da Amulio di mettere in atto cotanta crudeltà non ebbe il coraggio di eseguire l’ordine e preferì abbandonarli al loro destino in una cesta sull’acqua del non lontano Tevere.
Arenatisi tra la vegetazione del fiume, furono trovati e adottati da una Lupa che con la sua bocca (ancora oggi auguriamo la buona sorte dicendo “in bocca al lupo”) li portò con sé e li allattò in una grotta ai piedi del Colle Palatino.
Uno solo dei due diventò Re di quel popolo di malfattori dopo aver ucciso il fratello con l’arma che avrebbe conquistato il mondo: il gladio.
Storia o leggenda?
Alcuni autorevoli archeologi (tra cui il grande Andrea Carandini che spiega il risultato dei suoi studi in uno stupendo video facilmente reperibile in rete) sostengono che molte fonti storiche testimoniano che la nascita di Roma fu proprio frutto del fratricidio di cui abbiamo appena parlato.
Quanto all’adozione dei fratelli da parte della Lupa, tutti (o quasi) sostengono si tratti solo di una bella leggenda che nasconderebbe la disonorevole nascita del primo Re di Roma da una prostituta.
A me (e non solo a me) piace pensare, invece, che in fondo questa storia tanto leggenda non sia.
Le leggende hanno sempre un fondamento di verità e, se si vuol nascondere un evento così assai poco edificante, perché mai si dovrebbe rievocare proprio l’animale che a Roma rappresentava l’esercente del mestiere più antico del mondo, tanto che i postriboli romani venivano appunto chiamati lupanari?
Vi è poi da dire che la natura è ancora oggi piena di commoventi esempi in cui femmine di animali che, per un innato istinto materno, allattano specie diverse dalla loro.
Dunque ritengo che non sia affatto peregrina la tesi che un evento così eccezionale, come ha rappresentato Pieter Paul Rubens nel suo bellissimo quadro intitolato “Romolo e Remo allattati dalla Lupa” (Roma, Musei Capitolini), ben potrebbe essere stato visto da testimoni oculari e poi tramandato oralmente di generazione in generazione, secula seculorum.
Nessuno può dire con certezza che sia andata veramente così. Ma nessuno, con altrettanta certezza, può dire il contrario.
Tornando ai brutti ceffi stabilitisi all’ombra dei sette colli, nonostante la loro brutalità costoro possedevano (forse perché necessità fa virtù) una forte inclinazione all’ordine, all’organizzazione e alla genialità.
Queste loro doti si rifletteranno poi in tutte le loro opere e in tutte le invenzioni e le scoperte di cui, nel prosieguo della Storia, i loro discendenti diverranno protagonisti.
Avevano intuito che il meccanismo del “do ut des” avrebbe potuto costituire la chiave di volta per la costruzione del loro Stato e della loro prosperità.
Inventarono così la figura del “cittadino soldato”: un contadino (questa era l’attività principale dell’epoca) sempre pronto a difendere lo Stato e la propria famiglia.
Solo chi era un cittadino aveva l’onere (ma soprattutto l’onore) di prendere le armi per difendere la propria comunità, la propria moglie e i propri figli.
In cambio lo Stato gli dava lotti di terra coltivabile (all’epoca un lusso per pochi) con cui assicurare ai propri cari una vita dignitosa.
Ma c’era un problema: dopo poco tempo quel popolo guerriero e bellicoso che stava crescendo e si stava consolidando, si era reso conto che in quel luogo così malfamato e malsano le donne scarseggiavano. Se non fosse corso ai ripari, presto si sarebbe estinto.
Fu così che a quei furbi guerrieri venne in mente, con la scusa di dover celebrare un’importante ricorrenza religiosa, di invitare i Sabini (glorioso popolo guerriero dell’entroterra del Centro Italia) nella loro nuova Città-Stato: Roma.
Una volta arrivati, gli ospiti furono accerchiati dai Romani che si presero con la forza tutte le loro giovani donne, rispedendo a casa i maschi come cani bastonati e con la coda tra le gambe.
Dopo circa due anni i Sabini tornarono a Roma per riprendersi il maltolto. Erano imbufaliti e armati fino ai denti. Alla loro testa c’erano i padri delle ragazze rapite.
Durante l’aspra battaglia, come viene rappresentato in un sublime quadro di Jacques Louis David (“Le Sabine”, Museo del Louvre di Parigi), le ostilità terminarono quando quelle stesse ragazze – che nel frattempo (quale più quale meno, obtorto collo) erano diventate madri e mogli innamorate di quei baldanzosi e spregiudicati giovanotti – si frapposero tra le opposte fazioni coi loro neonati in braccio, implorando ai contendenti (i mariti da una parte e i padri dall’altra) di rinfoderare le spade e di fare la pace.
I contendenti obbedirono immediatamente. Fu così che Roma e i Sabini si fusero in unico popolo. Una vera e propria love story “collettiva” di altri tempi dal miglior lieto fine possibile.
Già dai suoi primordi, dunque, Roma si dimostrò incline a crescere grazie all’intelligenza, alla forza e alla capacità di stringere alleanze e di risolvere problemi. Potremmo dire un mix di geopolitica e arte di arrangiarsi.
Con una buona dose di violenza, astuzia e lungimiranza, i Romani furono dunque capaci di organizzare un Ratto di giovani donne (le Sabine appunto) con cui formarono numerose famiglie e si imparentarono con i loro padri guerrieri assicurandosi così discendenza, continuità e forza.
Sembra quasi un’anticipazione di una celebre frase che molti secoli dopo (forse perché costui aveva il loro stesso DNA) pronunciò un loro discendente che risponde al nome di Niccolò di Bernardo dei Machiavelli.
La relativa facilità con cui Roma diverrà padrona, per mare e per terra, di un grande Impero che andrà dalla Scozia all’Iraq e dalla Romania al Sudan (fonti storiche testimoniano che in realtà i Romani, tramite commerci ed esplorazioni, arriveranno perfino alla sorgente del Nilo, nell’est dell’India, in Cina, in Indonesia da dove importavano il pepe e – non pochi ormai lo sostengono concordemente – anche in America), sarà il frutto della puntuale applicazione di tutto questo: do ut des, organizzazione, disciplina, valore assoluto della cittadinanza e (tanta, veramente tanta) genialità.
Nell’epoca monarchica Roma non aveva ancora un’altra formidabile “arma” con cui di lì a qualche secolo dopo avrebbe conquistato il mondo dell’epoca e quello futuro: la legge scritta.
Ma la acquisirà più tardi, nel V secolo A.C., con quella che oggi conosciamo sotto il nome di Legge delle Dodici Tavole.
A tutti i popoli che accettavano la sconfitta, o che loro sponte vi si alleavano, Roma concedeva molta autonomia e costruiva splendide infrastrutture (do) a condizione (ut) che pagassero le tasse, fossero suoi fedeli alleati, mettessero a disposizione le proprie risorse e fungessero da inesauribile serbatoio di uomini pronti a combattere fino alla morte per lo Stato di Roma (des).
Anch’essi dovevano fare sacrifici agli Dei adorati dai Romani per assicurare la loro benevolenza. Per il resto potevano adorare il Dio o gli Dei che volevano.
A Roma, checché se ne dica (falsi storici e luoghi comuni circolano in abbondanza), c’è sempre stata libertà di culto. Qui si potrebbe aprire un lungo e annoso capitolo sul perché, dunque, delle persecuzioni dei cristiani avvenute in epoca imperiale.
Basti dire, ora, che le persecuzioni cristiane furono dovute a motivi strettamente istituzionali e, banalmente, anche per qualche equivoco.
All’epoca era ancora lontano il tempo in cui qualcuno ci illuminò dicendo “Libera Chiesa in libero Stato”.
Inoltre la celebre frase “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” era ancora conosciuta da pochi e in ogni caso appariva ancora incomprensibile ai più.
Infatti, pur potendo credere nel loro unico Dio (i Romani invece ne avevano tanti), il rifiuto dei fedeli di Cristo di sacrificare animali agli Dei rappresentava agli occhi di Roma un grave pericolo: gli Dei, da viziati e volubili che erano, si sarebbero infuriati e avrebbero determinato la rovina e la fine dello Stato.
Vi fu inoltre un grave equivoco. L’Eucarestia, in cui i fedeli cristiani si nutrivano del corpo e del sangue di Cristo, per Roma rappresentava un incitamento al cannibalismo che era punito con la morte.
Tornando al tema della grande capacità di Roma di gestire i rapporti con i propri Socii e Foederati, a volte pacificamente e molte altre meno, non è un caso che diversi secoli dopo una delle principali ragioni per cui Annibale Barca alla fine perse la seconda guerra punica, pur infliggendo a Roma pesantissime e sanguinosissime sconfitte.
Basti citare l’imboscata del Lago Trasimeno e la battaglia di Canne, nei pressi dell’odierna Canosa, in cui, grazie ad una manovra a tenaglia ancora oggi studiata in tutte le accademie militari del globo terracqueo, il famoso condottiero africano trucidò in un solo giorno ben 85.000 uomini tra legionari romani e loro auxilia.
Quando Annibale propose ai Socii e Foederati italici di Roma di voltarle le spalle e di allearsi con lui, quasi tutti declinarono l’invito. Ed era ovvio: perché mai costoro avrebbero dovuto tradire l’Urbe che era così prodiga di autonomia e costruiva tutte quelle infrastrutture in quello che era il loro territorio? Per poi essere governati da uno sconosciuto venuto da chissà dove e non si sa bene con quali intenzioni?
Roma, inoltre, ha sempre saputo trarre un insegnamento dalle sue poche sconfitte. Quantomeno fino ad Adrianopoli, di cui parlerò dopo, Roma ha perso alcune battaglie ma non ha mai perso una sola guerra e l’ha sempre fatta pagare molto cara (con interessi che oggi definiremmo a dir poco usurari) a chi osò batterla.
Oltre alla battaglia di Canne (dopo la quale Roma mandò a dire ad un incredulo Annibale che, anche dopo aver lasciato sul campo 85.000 soldati, di resa non si parlava proprio), anche l’epilogo delle tre cosiddette “guerre servili” furono il sintomo della grande lungimiranza del Senato e del Popolo dell’Urbe.
La grande massa di schiavi su cui Roma aveva basato la propria economia era sfociata in loro rivolte su larga scala. La più celebre fu l’ultima, quella capeggiata da Spartaco, gladiatore che seppe reclutare al suo comando decine di migliaia di schiavi ribelli. Ebbene, dopo il macabro monito dato dalla famosa crocifissione di massa di ben 6.000 ribelli lungo l’Appia Antica ordinata dal Console Marco Licinio Crasso, Roma comprese che anche se sei lo Stato più potente e più ricco del mondo, non conviene mai tirare troppo la corda.
Vennero così approvate alcune riforme che concedevano agli schiavi alcuni diritti e miglioravano le loro condizioni di vita. Molti schiavi che si dimostravano capaci venivano ad esempio impiegati nell’amministrazione pubblica. Quelli più meritevoli spesso diventavano liberti. Ciò conferiva loro, automaticamente, la cittadinanza con la quale potevano ambire (e ciò succedeva non di rado) a scalare i gradini della società e dell’economia come nemmeno i popoli liberi di Socii e Foederati potevano anche solo pensare di fare.
Più in là, in epoca imperiale e prima dell’editto di Caracalla, Roma concedeva la cittadinanza a tutti coloro che, pur non essendo romani, avessero prestato servizio nell’esercito per 25 anni. Ciò rappresentava una grande forma di investimento per il soldato barbaro che col suo sacrificio sapeva di poter assicurare alla propria famiglia e ai propri discendenti una vita dignitosa, notevoli privilegi e la possibilità di arrivare alle più alte Magistrature dello Stato.
Ma questo rappresentava anche la garanzia, per Roma, di accogliere come propri figli persone realmente romanizzate che condividevano i propri valori e mai l’avrebbero tradita. Quindi, la concessione della cittadinanza agli stranieri era prevista, sì, ma in maniera estremamente prudente (potremmo dire col contagocce) e solo alla fine di un lungo percorso al cui esito l’aspirante cittadino aveva dimostrato, al di là del colore dei capelli, della pelle o degli occhi, di essere diventato un vero romano e di saper parlare latino.
In tutti i territori conquistati Roma ha sempre creato dei veri e propri “cloni” della propria Capitale: nuove città con palazzi pubblici, monumenti, santuari, tribunali, acquedotti, fognature, anfiteatri, mercati, terme. Tutto in stile romano. Cose davvero mai viste prima.
A Roma come a Mediolanum, a Brixia (l’odierna Brescia, terra dei Galli Cenomani: Brixia viene infatti da “brik” che in gallo cenomano significa “altura”) come a Lugdunum (l’odierna Lione, in Gallia, in cui nacque il pur italianissimo imperatore Claudio), ad Augusta Treverorum (l’odierna Trier, Germania) come ad Alba Fucens (Abruzzo, nei pressi di Avezzano), a Il Cairo come ad Acquae Sulis (l’odierna Bath – UK) le cui terme in perfetto stile capitolino sono tutt’oggi visibili in mezzo al caos cittadino in cui svettano guglie e palazzi in stile gotico.
Altri strumenti formidabili con cui Roma ha conquistato e dominato il mondo sono stati il diritto e la democrazia moderna che ha inventato prendendo spunto dalla Grecia.
Certamente la Grecia ha certamente il merito di aver dato i natali alla democrazia. Ma era una democrazia primordiale e rudimentale: semplicemente nell’Agorà gli oratori esponevano le loro idee e le loro proposte; il popolo le approvava o le respingeva per acclamazione. Fine del discorso.
Roma, invece, grazie alla sua genialità, ha inventato un modello diverso ed assai più evoluto di democrazia che non a caso assicura il funzionamento di tutti gli Stati moderni: gli odierni Parlamenti, come l’antico Senato capitolino, sono infatti l’espressione “mediata” (e non diretta, come avveniva in Grecia) delle componenti della società.
E’ stata Roma che ha delineato per prima il concetto dei “checks and balances” e che ha messo in atto quella divisione dei poteri dello Stato che molto più tardi (praticamente l’altro ieri) Montesquieu avrebbe rivisitato.
Nella Repubblica Romana ricorreva spesso il numero “due” proprio per assicurare, come avviene oggi in tutte le democrazie moderne, un bilanciamento ad ogni peso: due erano i Consoli la cui carica durava un anno; solo in casi di eccezionale emergenza il Senato poteva nominare un Dittatore che tuttavia rimaneva in carica solo sei mesi; e sempre due erano, a giorni alterni, secondo la consuetudine militare, i comandanti delle legioni impegnate nelle campagne belliche. L’uno, infatti, doveva controllare l’altro per evitare che acquisisse troppo potere e magari, con un colpo di mano, riuscisse a diventare un odiosissimo Rex.
In effetti Roma, dopo aver cacciato un certo Tarquinio il Superbo ed essersi liberata dal dominio del sia pur luminoso popolo degli Etruschi, non volle mai più sentir pronunciare la parola Rex. Furono un popolo, gli Etruschi (il cui sangue scorre nelle vene di chi scrive), che influenzò notevolmente Roma dalla quale – dopo la sconfitta di Veio di cui il secondo fondatore di Roma e Pater Patriae, Furio Camillo, fu il grande artefice – fu alla fine conquistato e assorbito.
E’ vero che dopo l’epoca repubblicana e la mastodontica riforma istituzionale di Gaius Iulius Caesar Octavianus Augustus (meglio conosciuto come Ottaviano, il primo Imperatore di Roma uscito vincitore dalle guerre civili prima contro i repubblicani Bruto e Cassio e poi contro l’ex alleato cesariano Marco Antonio) si è parlato di Princeps e di Imperatores. Ma mai più di Rex.
Sia pure a fasi alterne, il Senato e il Popolo Romano (ancora oggi tale locuzione è il motto di Roma: Senatus PopulusQue Romanus) hanno sempre avuto un ruolo decisivo anche quando al vertice dello Stato c’era l’Imperatore.
Certo: di senatori ammazzati per ordine dell’uomo solo al comando ce ne sono stati molti.
Ma sono assai pochi gli Imperatori che si sono congedati da questa Terra a seguito di morte naturale: la maggior parte di essi hanno attraversato i Campi Elisi dopo aver assaggiato le lame delle spade o dei pugnali “amici”, spesso proprio dei Pretoriani che proprio Ottaviano istituì per “proteggerli”.
E fu proprio il Senatus di Roma a compiere l’omicidio più famoso della Storia: un omicidio che suo malgrado vide come tragico protagonista colui che, guarda caso, aveva dato chiari segni di voler diventare Rex: Gaius Iulius Caesar. Erano le idi di marzo dell’anno 44 A.C..
Ma proseguiamo nel nostro viaggio (spero non troppo noioso) avvicinandoci sempre di più all’epilogo del nostro narrare.
E’ dai tempi della scuola che sentiamo parlare di invasioni barbariche. Sfatando un luogo comune, bisogna dire innanzitutto che queste bellicose popolazioni straniere certamente premevano in armi il limes romano (spesso oltrepassandolo).
Ma – con buona pace di Diego Abatantuono nell’esilarante film “Attila, il flagello di Dio”, mi sia concessa questa leggera digressione – non volevano affatto distruggere né Roma, né il suo Impero.
Spesso i barbari desideravano talmente usufruire dei vantaggi di Roma e della romanizzazione che spontaneamente (a condizione che a Roma interessasse) si alleavano con la Città Eterna senza nemmeno combattere.
Queste tribù erano talmente affascinate, estasiate e incredule alla vista delle mirabili opere che l’Urbe diffondeva in tutta l’Europa del tempo che volevano semplicemente usufruirne e far parte dell’Impero.
La romanizzazione, in effetti, dava loro grandi vantaggi: fognature e acqua potabile in case fatte (a differenza delle loro capanne) per durare per sempre, comode strade (che prima mai si erano viste), teatri e anfiteatri in cui si celebravano grandi spettacoli e importanti ricorrenze (tutte strutture, queste, che spariranno con la caduta dell’Impero e che si rivedranno solo dopo più di 1000 anni), un esercito invincibile dotato di armi micidiali la cui potenza e precisione fu eguagliata e superata molti secoli dopo e solo con l’avvento della polvere da sparo. Mi riferisco, ad esempio, allo “scorpione”: una sorta di balestra fissa inventata in epoca imperiale e che riusciva a sparare fino a ben cinque micidiali dardi al minuto alla velocità di 200 chilometri orari. Ogni legione ne aveva circa 60: una salva di proiettili sparati contro le disordinate orde di barbari che morivano come mosche.
Ma come ha iniziato a prendere forma l’Europa che conosciamo oggi?
La splendida e irripetibile civiltà di Roma si esprimeva all’interno di un territorio sconfinato che oggi, con le strutture tecnologiche e logistiche di cui godiamo, equivarrebbe ad almeno dieci volte tanto.
Sarebbe troppo lungo parlare anche dell’epoca dell’Impero e sulla sua caduta, convenzionalmente collocata dagli storici nel 476 D.C.. Evento, questo a dire il vero passato alquanto inosservato all’epoca. Sulle sue cause ancora oggi i massimi storici del pianeta continuano ad accapigliarsi.
Effettivamente, per affrontare questo tema non basterebbe un trattato di 20 volumi.
Mi propongo di farlo, in maniera estremamente sintetica (ma soprattutto indegna), in un altro mio scritto.
Qui dico solo che in quell’anno fu destituito un insignificante e patetico Imperatore di soli 14 anni, biondissimo, venuto dalla Pannonia (l’odierna Ungheria) e assurto al rango di fantoccio nelle mani del padre: si chiamava Flavius Romolus Augustus, meglio conosciuto come Romolo Augustolo. Già, Romolo, come il primo Re. L’alfa e l’omega: ironia della sorte.
Flavio Odoacre, generale barbaro dell’esercito romano anch’egli venuto dalla Pannonia e rivale del padre del giovanissimo imperatore, lo depose e lo collocò a riposo a Castel dell’Ovo, sul lungomare dell’odierna Napoli, con una rendita vitalizia.
Odoacre ottenne dal Senato, probabilmente ob torto collo, il titolo di Patrizio dei Romani, si autoproclamò Rex Italiae e si attribuì il titolo di Augusto.
Ecco, dunque, una cosa a tutta prima contraddittoria: un barbaro che prima combatte per Roma, poi ne depone l’ultimo giovanissimo Imperatore ma poi ne diventa Patrizio fregiandosi dello stesso titolo di chi aveva appena deposto e confinato all’ombra del Vesuvio.
Fu proprio quello di Odoacre il primo atto di fondazione di un Regno in Italia il cui originale è ancora oggi conservato nella biblioteca del Palazzo Reale della città partenopea.
Lo sfaldamento dell’Impero Romano era iniziato in realtà già da molto tempo.
Furono i fatti di Adrianopoli (378 D.C.) a segnare l’inizio della sua disgregazione e, dunque, del processo di formazione di quelli che gli storici chiamano regni “romano-barbarici”.
I prodromi di Adrianopoli coincisero con quella che oggi chiameremmo “operazione umanitaria”.
Ai Goti (che erano veramente tanti) fu permesso di entrare in massa all’interno dell’Impero perché erano in fuga dai massacri e dai saccheggi che stava perpetrando un’altra popolazione barbara proveniente dalle steppe asiatiche, assai violenta e spietata, che darà molto da fare a Roma e che il 20 giugno del 451 D.C. Ezio, ai Campi Catalaunici, in Gallia, metterà a posto una volta per tutte: gli Unni di Attila. Fu l’ultima grande vittoria di Roma.
Roma pose ai Goti una condizione affinché potessero entrare nel territorio dell’Impero: la consegna delle armi. Furono promesse loro terre da coltivare e in cui vivere in cambio di forza lavoro e di biondi e possenti giovanotti da arruolare nell’esercito.
Ma i Goti, che non si fidavano dei Romani, quelle armi le nascosero con la connivenza di molti comandanti delle Legioni in cambio (poiché, come già detto, la Storia si ripete ogni giorno) di quelle che oggi chiamiamo mazzette.
I Goti, però, mano a mano che arrivavano nel territorio dell’Impero (la di là del Danubio si era diffusa la voce che i Romani avevano dato loro il permesso di entrare) si riversarono sul limes talmente in tanti che Roma non poté più mantenere le promesse.
Dopo circa due anni, stanchi della situazione i nuovi arrivati tirarono fuori le armi che avevano portato con sé e si ribellarono: saccheggi e stragi della popolazione inerme ai danni degli insediamenti romani (senza distinzione di età e di sesso) erano all’ordine del giorno.
Lo scontro finale fra truppe capitoline e gote si ebbe appunto ad Adrianopoli. I comandanti goti, nel corso di una trattativa, furono invitati dai Romani all’interno delle mura della città per mettersi d’accordo gozzovigliando in un grande banchetto. Lo scopo dei Romani era in realtà quello di farli ubriacare e di sgozzarli, decapitare il comando delle truppe barbare che si trovavano fuori città in attesa di ordini, chiudendo così la partita una volta per sempre.
Pare però che i Goti reggessero il vino meglio dei Romani.
Nel frattempo Valente, l’Imperatore d’Oriente che comandava le truppe romane decise di cercare una vittoria tutta sua.
Così non attese le legioni comandate dal collega Graziano, Imperatore d’Occidente, che era in marcia. Valente diede l’ordine di attaccare i Goti. Fu una tremenda disfatta per i romani, dettata in gran parte dell’inetto ed egoista imperatore che non volle giocare di squadra: ben 30.000 uomini furono massacrati tra le sue fila.
Il corpo dell’Imperatore Valente non fu più trovato. Si dice che durante la battaglia si rifugiò in una fattoria in cui la cavalleria gota lo inseguì dandola alle fiamme con lui dentro ancora vivo. Questa pesante disfatta costrinse Roma ad assegnare ai Goti un regno in una delle sue più importanti Province, l’Hispania, in cui nacque così il Regno dei Visigoti.
Dopo Adrianopoli i Goti, sia pure dietro un accordo solo formale di alleanza con Roma, fecero sostanzialmente quello che volevano, togliendo per sempre a Roma il controllo di quelle terre. Anche se paradossalmente i Goti avranno un ruolo determinante, nel medioevo, nel mantenimento della romanità in Europa.
Da quel momento l’esercito romano sarà pressoché composto solo da truppe di origine barbara.
I capi barbari assunsero sempre più un potere autonomo all’interno dell’esercito con cui spesso ricattavano Roma chiedendo, con la minaccia di marciarvi contro, sempre più denaro, diritti e indipendenza.
I regni romano-barbarici nascono proprio in quei territori da cui Roma, a un certo punto, dopo averne perso il controllo militare, politico ed economico, è costretta a ritirarsi.
E sono i regni romano-barbarici a costituire la prima cellula di quelli che molti secoli dopo saranno i cosiddetti Stati Nazionali dell’Europa.
L’Europa moderna, dunque, nell’alto medioevo prosegue nella sua lunga fase di gestazione.
Tornando all’Italia, dopo pochi anni dalla deposizione dell’ultimo imperatore, Odoacre fu ucciso da Teodorico, Re degli Ostrogoti, i Goti dell’Est. Il Regno Ostrogoto in Italia durò dal 493 al 553 D.C..
Durante il Regno Ostrogoto, Goti e Romani avevano prosperato dividendosi intelligentemente i compiti: i Goti si occupavano dell’esercito (come abbiamo detto già in epoca tardo imperiale l’esercito romano era ormai composto solo da soldati barbari o di origine barbarica ed erano ormai loro a detenere il monopolio della forza); i Romani, invece, si occupavano dell’amministrazione dello Stato, delle leggi e delle opere pubbliche su cui i Goti, a dire il vero, da buoni barbari non sapevano proprio di che si parlava.
Vi era anche una netta separazione tra le due componenti etniche che, infatti, vivevano in zone distinte delle città. Vi era inoltre il divieto di matrimoni misti. Il termine “barbaro” fu bandito per rispetto dei nuovi padroni.
Il Senato Romano continuò ad esistere e ad operare senza soluzione di continuità. Tra la fine del quinto e la metà del sesto secolo, a Roma e in Italia sembrava ancora di vivere all’ombra dell’Aquila Imperiale se non fosse stato per la presenza di quei soldati così alti e biondi che ormai indossavano divise diverse da quelle ante 476 D.C..
I commerci e la vita quotidiana potevano contare sulle strutture, ancora integre, che aveva creato Roma. Per l’Italia quella fu un’epoca di grande ricchezza, potenza, benessere e pace.
Abituati a pensare ai barbari come distruttori di Roma e del suo Impero, sorprende non poco chi non ha mai approfondito la Storia di Roma e dell’Alto Medioevo il fatto che il mausoleo di Teodorico, il grande Re degli Ostrogoti, sito a Ravenna, è una vera e propria miniatura del grande Mausoleo di Ottaviano Augusto che troviamo in pieno centro a Roma e che la Sovrintendenza ai Beni Culturali sta restaurando da circa un anno. E non è certamente un caso che nel 402 D.C. proprio a Ravenna l’imperatore Onorio trasferì la Capitale dell’ormai decadente Impero Romano d’Occidente.
A un certo punto, però, Giustiniano, padre del famoso Corpus Iuris Civilis, si mise in testa di cacciare gli Ostrogoti dall’Italia e dai balcani riannettendo quei territori all’Impero.
Era la Renovatio Imperii, un progetto ambizioso e bellissimo, ma irrealizzabile. Anzi, per l’Italia si rivelò fatale.
In Italia le guerre gotico-bizantine causarono la pressoché completa distruzione di tutte le infrastrutture che i Romani avevano eretto in 1200 anni, riducendole in gran parte a rovine e a cumuli di macerie. Quella che era l’economia più fiorente non solo nell’antichità, ma anche nel primissimo medioevo, diventò improvvisamente una delle più povere proprio perché paradossalmente era la più ricca e, dunque, contesa. La ricchezza e la prosperità della penisola italica (da cui nacque la potentissima Roma) fu dunque, per la futura Italia, un fatale boomerang.
Dalla fine del grande Regno Ostrogoto l’Italia non sarà più uno Stato unito per altri 1300 anni, fino a quando entreranno in scena i Savoia e Giuseppe Garibaldi.
Dopo le guerre gotico-bizantine e le macerie e i morti che si lasciarono alle spalle, l’Italia divenne di fatto una provincia dell’Impero Romano d’Oriente. Ma nel 568 D.C., dopo tre anni dalla morte di Giustiniano, giunsero in Italia, ovviamente da nord (passando dall’odierna Cividale del Friuli), un altro dei popoli, originari della penisola scandinava, che secoli prima erano rimasti affascinati dai fasti di Roma: i Longobardi.
Erano pochi, 100-200 mila al massimo, ma erano tutti rozzi e spietati guerrieri armati fino ai denti. Quella che parliamo oggi in Italia, si sa, è la lingua neolatina per eccellenza, ma molte sue parole derivano, oltre che dal greco, proprio dalla lingua di questo rozzo popolo che ha dominato gran parte della Penisola per circa due secoli: guerra (guarda caso), tregua, sacco, briglia, staffa, airone, arraffare, scherzare, spaccare, pizzo, bara, berlina, striscia, ciuffo, faida (concetto, questo, inconcepibile per i Romani), graffio, strofinare, bisticciare, schiena, muffa, palla, fresco, banca, russare, guancia, riga, sala, anca, sguattero, balcone, zolla e tanti altri. Anche qualche cognome: ad esempio Boniperti e lo stesso Garibaldi.
Nel vuoto politico e militare dell’epoca questi biondi flagelli, esigua ma agguerritissima minoranza, conquistarono velocemente quasi tutto il territorio italiano (ribattezzato Langobardia Maior a nord e Langobardia Minor a sud, entrambe con capitale a Pavia) ad eccezione di quello occupato dalle truppe del Papa e della appena citata Romagna. Regione, questa, che si chiamava (e si chiama tutt’oggi) così proprio perché, come dicevano i Longobardi, lì c’erano ancora i Romani.
Nei territori da loro occupati i Longobardi si comportarono da veri e propri dominatori: confiscarono le terre che erano appartenute ai notabili Romani; ogni tenuta venì assegnata ai propri guerrieri venuti da lontano.
Ogni guerriero longobardo, dunque, in un vero e proprio capovolgimento del mondo, diventò un piccolo possidente nella cui tenuta lavorava manodopera latino-romana.
Dunque siamo già di fronte al modello di quello che più tardi diverrà il sistema feudale europeo, incentrato sulla figura del Vassallo.
Le cose andarono in maniera simile anche nell’odierna Francia dove sulle macerie dell’Impero Romano anche i Franchi fondarono un proprio Regno. Erano i discendenti di una tribù germanica più o meno romanizzata che secoli prima si stanziò da quelle parti.
Un loro giovane Rex, dopo alcuni secoli, la mattina del Natale dell’anno 800 D.C. a Roma, nella Basilica di San Pietro (esattamente nel punto in cui oggi, all’entrata centrale, si trova un cerchio di marmo color rosso porfido, non a caso il colore degli Imperatori Romani), fu incoronato, da Papa Leone III, primo Imperatore del Sacro Romano Impero.
Egli è passato alla Storia col nome di Carlo Magno. Dopo aver cacciato i Longobardi dall’Italia su richiesta del Papa (che si sentiva minacciato da quel popolo di rozzi guerrieri) il futuro Imperatore aveva già assunto anche la Corona dei Longobardi col titolo di Gratia Dei Rex Francorum et Langobardorum atque Patricius Romanorum. La Storia ci ha consegnato un giovane barbaro divenuto, per grazia di Dio, Re dei Franchi, Re dei Longobardi, Patrizio dei Romani e primo Imperator del Sacro Romano Impero.
Ancora oggi la maggior parte degli storici convengono sul fatto che fu proprio Carlo Magno a mettere il sigillo della fondazione d’Europa.
Già in tempi non sospetti (732 D.C.) fu con la vittoria di Poitiers di un precedente Re dei Franchi (Carlo Martello) che si parlò con enfasi di “Europa”.
Si era in piena guerra di “reconquista”: nel parlare della battaglia, un monaco (tale Isidoro Pacensis) disse, per la prima volta nella Storia: “Ha vinto l’Europa!”.
Indubbiamente, ed è un dato storico, anche l’elemento religioso ha contribuito notevolmente alla nascita, alla formazione e allo sviluppo dell’Europa.
Secoli prima di Poitiers, nel 315 D.C., un altro Imperatore di Roma Antica, Costantino, col suo editto di Mediolanum (città fondata dai Galli Cisalpini e poi divenuta romana), aveva proclamato religione ufficiale dell’Impero proprio quella religione che fino a pochi decenni prima aveva tanto sofferto a causa delle famose persecuzioni di cui si è detto: il Cristianesimo.
Tutta l’Europa del tempo si convertì prima all’Arianesimo (una forma di Cristianesimo, fondata dal monaco Ario, che concepiva la natura divina di Cristo come inferiore rispetto a quella di Dio ma che fu bandita nel 325 D.C. col Concilio di Nicea) e poi, definitivamente, al Cattolicesimo.
Carlo Magno e i suoi Franchi, dunque, con la fondazione del Sacro Romano Impero divennero le vere e proprie “sentinelle” della romanità e della cristianità della neonata Europa.
Certo, questo nuovo Impero era per lo più di stirpe germanica: la sua capitale era Aquisgrana, nell’odierna Germania, e Carlo era un germano.
Ancora si discute se fosse francese o tedesco, anche se all’epoca tale distinzione non aveva alcuna ragion d’essere. Ma era un Impero che aveva salde fondamenta romane che ambiva a restaurare e a perpetuare la romanità, i suoi valori e il suo modo di intendere la società, lo Stato e la religione.
Dunque, al termine di questa lunghissima storia credo si possa dire, senza temere di essere additato come eretici e rischiare quindi di essere messi al rogo a Campo de’ Fiori come Giordano Bruno, che il germoglio dell’Europa vi fu grazie all’opera del Rex et Imperator Carlo Magno.
Ma ogni pianta che germoglia nasconde sempre, un po’ come la punta di un iceberg, delle radici.
E nel caso che ci occupa (e che, spero, appassioni anche voi lettori) queste radici sono profonde e hanno un nome preciso: Roma.
Il germoglio dell’Europa è il formidabile e incredibile risultato di un percorso affascinante, lunghissimo e accidentato che inizia in un villaggio di capanne abitate dai peggiori assassini e malfattori del centro Italia, fuggiti sulle sponde paludose del Tevere e la cui principale attività economica era la pastorizia.
E’ un percorso che prosegue nei successivi 1200 anni in cui costoro, grazie al proprio coraggio ma soprattutto alla loro genialità, sottometteranno, civilizzeranno e romanizzeranno un vero e proprio crogiuolo di popoli.
E’ un popolo che ha forgiato un modello di Europa che, complici innumerevoli altri fattori, tra cui l’implosione del potere centrale e la perdita del privilegio, del valore e dell’essenza stessa della cittadinanza, verrà messo in crisi da una spirale innescata proprio da quelle innumerevoli tribù germaniche (Goti, Franchi, Alamanni, Galli, Celti, Cherusci, Cimbri, Teutoni, Britanni, Longobardi, Angli, Turingi, Sassoni, Vandali, Marsi e chi più ne ha più ne metta) che tuttavia, dopo alcuni secoli, si proporranno paradossalmente (in gran parte riuscendovi) di far rivivere i fasti della Città e dell’Impero che un tempo combatterono ma di cui volevano far parte.
Ancora oggi non solo in tutta Europa, ma anche nel resto del Pianeta, non a caso si trovano monumenti alla Lupa Capitolina: Segovia, Parigi, La Louviere, Friburgo, Timisoara, Bucarest, Millesgarden (Svezia), Bengasi, Milano, Wells (UK), Toronto, Buenos Aires, Boston, Washington, Cincinnati, Hamilton (Nuova Zelanda), Chofu (Giappone), Shahriston (Tajikistan) e in tante altre città che a nessuno o quasi verrebbe in mente abbiano qualcosa da spartire con Romolo e Remo.
Una citazione particolare va fatta certamente per Merida (Spagna): la “Augusta Emerita” di epoca imperiale in cui Ottaviano mandava a riposo (meritato, appunto) i legionari che si erano distinti durante il loro lungo servizio militare.
Qui gli abitanti ancora oggi si ritengono orgogliosamente i diretti discendenti delle famiglie di quei gloriosi legionari. Le vie della città portano i nomi dei più illustri personaggi che hanno fatto grande Roma. E’ lì che vi sono ancora innumerevoli e splendide testimonianze della presenza di Roma tra cui i bellissimi resti del teatro, dell’anfiteatro, del ponte (ancora oggi uno dei più lunghi d’Europa) e dell’acquedotto.
Roma ha ancora oggi un fortissimo legame anche con la Romania, sua importante Provincia dell’epoca imperiale, conquistata da Traiano e celebrata dalla stupenda e omonima colonna che ancora oggi possiamo ammirare a Piazza Venezia. In proposito basti citare un assai eloquente passaggio dell’inno nazionale rumeno: “Ora o mai più diamo prova al mondo che in queste vene ancora scorre il sangue dei Romani e che nei nostri petti conserviamo con orgoglio un nome trionfatore in battaglia, il nome di Traiano!”.
Prima di terminare questa nostra chiacchierata sulle radici dell’Europa e sul suo processo di formazione, non possiamo non porci una domanda che ancora oggi solletica gli storici di professione: dobbiamo parlare di barbarizzazione di Roma o di romanizzazione dei barbari?
E’ molto difficile dare una risposta a questa domanda: anche su questo tema gli addetti ai lavori sono tutt’altro che concordi.
Nel mio piccolo mi sento di dire che certamente sono vere entrambe le cose.
Si tratta però di stabilire quali dei due meccanismi abbia prevalso sull’altro.
Personalmente ritengo che tra i due abbia prevalso il secondo. A mio modesto avviso l’Europa ancora oggi è e rimane romana.
Possiamo però dire, con assoluta certezza, che l’Europa e gli europei sono nati e cresciuti grazie ad una vera e propria fusione fra tre elementi che insieme hanno costituito e costituiscono tutt’oggi le sue radici: l’elemento romano, l’elemento germanico e (sperando di non suscitare qualche risentimento, ma quando si parla di Storia si parla di fatti) l’elemento religioso-cristiano.
Almeno per chi qui scrive, sia pure – ribadisco – indegnamente.