Commento a sentenza – Corte Costituzionale 31 gennaio 2023, n.10
di Avv. Maurizio Villani e Avv. Alessandro Villani
Premessa
In tema di accertamento bancario, sono infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, co.1, n. 2 del D.P.R. n. 600/1973, nella parte in cui dispone la presunzione per la quale i prelievi dal conto corrente, qualora non risultino dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell’imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario.
La norma censurata testualmente dispone che “…i dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a norma del numero 7) e dell’articolo 33, secondo e terzo comma, o acquisiti ai sensi dell’articolo 18, comma 3, lettera b), del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504, sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili”.
La Corte Costituzionale, con la recente sentenza del 31 gennaio 2023, n. 10, ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale della norma de qua.
Il caso
La questione trae origine dall’Ordinanza dello scorso aprile 2021, con cui la Commissione tributaria provinciale di Arezzo sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, numero 2), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui pone la presunzione per la quale i prelevamenti sul conto corrente, se non risultano dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell’imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario.
Il giudice rimettente riferiva che l’Agenzia delle entrate, a seguito di indagini finanziarie e sulla scorta delle risultanze di conti correnti bancari, recanti versamenti e prelevamenti non giustificati, aveva accertato una maggiore base imponibile di un imprenditore individuale sia per le imposte dirette, sia per l’IVA per l’anno 2013.
L’avviso di accertamento del 7 dicembre 2018 veniva impugnato dal contribuente che, a fondamento del ricorso, deduceva in particolare che l’Ufficio, nel rideterminare l’imponibile per la quantificazione delle imposte dirette, sommando i versamenti e i prelevamenti delle movimentazioni sui propri conti correnti, non aveva tenuto conto delle giustificazioni fornite dallo stesso per superare la presunzione di cui all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973.
La Corte territoriale evidenziava che la predetta norma pone infatti una presunzione legale relativa – che, in accordo con la giurisprudenza dominante, può essere superata solo mediante «prove rigorose, e non con presunzioni» – per la quale i prelevamenti sul conto corrente, se non risultano dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell’imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario, ove superino gli importi di euro 1.000,00 giornalieri e comunque di euro 5.000,00 mensili.
Il giudice rimettente paventava la possibile violazione, da parte della norma censurata, dell’art. 3 della Costituzione, sul piano dell’intrinseca ragionevolezza, atteso che in mancanza di giustificazione, un prelievo dal conto può essere attribuito, altrettanto ragionevolmente, a costi d’impresa quanto a spese personali, specie nell’ipotesi di piccoli imprenditori individuali che abbiano optato (come il contribuente nel giudizio presupposto) per il regime di contabilità semplificata.
Ancora, l’acquisizione di fattori produttivi, in ogni caso, potrebbe in ipotesi aver prodotto entrate che sono state contabilizzate, e quindi dichiarate, oppure, in caso contrario, già considerate nell’accertamento quali versamenti ingiustificati, con conseguente effetto di «duplicare la posta» se sono sommati i prelevamenti.
In subordine, la Corte rimettente deduceva l’irragionevolezza intrinseca della presunzione di equiparazione dei prelevamenti su conto corrente ai ricavi, laddove opera anche rispetto agli imprenditori assoggettati a contabilità semplificata, poiché tale regime contabile determina, come sottolineato da questa Corte nella sentenza n. 228 del 2014 rispetto ai professionisti, una sorta di «promiscuità» contabile, con conseguente difficoltà di distinguere tra spese personali e spese professionali.
La motivazione della sentenza
Così chiarita in estrema sintesi la questione che ha dato origine ai fatti di causa, preme osservare che la Corte Costituzionale si era già pronunciata sulla costituzionalità dell’art. 32, co. 1 n. 2, dpr 600/1973, dapprima con la sentenza 225 del 2005.
In siffatta decisione, la Consulta chiariva che la citata disposizione consente all’Amministrazione finanziaria di ricorrere a una doppia presunzione: i prelievi sarebbero destinati a finanziare costi occulti, i quali a loro volta avrebbero prodotto pari ricavi non risultanti dalla contabilità.
Parte della giurisprudenza aveva obiettato come, da un accertamento analitico-deduttivo consimile, ne deriverebbe un potenziale duplice effetto distorsivo, sotto il profilo della ragionevolezza (art. 3 Cost.) e in relazione al principio della capacità contributiva (art. 53 Cost.).
Più in particolare, nella relativa fattispecie, il giudice a quo aveva dubitato della legittimità costituzionale della norma per essere la stessa lesiva, da un lato, del principio di eguaglianza in danno dei titolari di rapporti bancari, nella misura in cui li assoggetta all’irragionevole «doppia presunzione» che i prelevamenti non giustificati siano acquisti e che dagli acquisti derivino pari ricavi, e da un altro, del principio di capacità contributiva, atteso che l’equiparazione prelevamenti/ricavi comporta che i primi costituiscano imponibile per l’intero, stante l’impossibilità di dedurre i costi correlati a tali ricavi, meramente presunti.
Con la richiamata pronuncia, nel dichiarare non fondate le questioni sollevate, la Consulta ha considerato, innanzitutto, la lamentata violazione dell’art. 53 Cost. rispetto alla quale ha ritenuto sostanzialmente erronea la premessa interpretativa sulla quale si era fondata la Commissione tributaria rimettente poiché, nell’ambito di un accertamento induttivo “puro” (o accertamento induttivo in senso stretto se la contabilità dell’impresa è complessivamente inattendibile ovvero se il reddito non è indicato nella dichiarazione; o se dal verbale ispettivo risulta che l’impresa non ha tenuto o ha sottratto all’accertamento scritture contabili obbligatorie ai fini fiscali; o se il contribuente non ha dato seguito all’invito a trasmettere o esibire atti o documenti e non ha risposto al questionario) la giurisprudenza di legittimità aveva chiarito che, in detta ipotesi, nel rideterminare i redditi con l’atto impositivo, gli uffici finanziari devono considerare, in conformità al principio di capacità contributiva, non solo i maggiori ricavi ma anche l’incidenza percentuale dei costi relativi, da detrarre dall’ammontare dei prelievi non giustificati.
La medesima sentenza n. 225 del 2005 ha, di poi, escluso anche la dedotta lesione del canone di ragionevolezza, sottolineando la non manifesta arbitrarietà della previsione censurata laddove assume, mediante una presunzione suscettibile di prova contraria, che i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa e siano, quindi, in definitiva, detratti i relativi costi, considerati in termini di reddito imponibile.
Rigettando le questioni di legittimità sollevate dalla Corte territoriale, la Corte Costituzionale, con la sentenza in commento, salva ancora una volta la disposizione censurata dell’art. 32, comma 1, n. 2 dpr 600/1973
In particolare, la pronuncia della Consulta trae l’abbrivo dalla ratio della norma tacciata di incostituzionalità, che va ravvisata nella necessità di introdurre uno strumento utile per contrastare efficacemente fenomeni di evasione in un contesto storico nel quale operava ancora il cosiddetto segreto bancario.
La disposizione, innanzitutto, esprime una presunzione – non attinta dalle questioni di legittimità costituzionale in esame – ritenuta comunemente conforme all’id quod plerumque accidit, per la quale i versamenti sul conto corrente, salvo prova contraria del contribuente, ove non dichiarati o risultanti dalle scritture contabili, costituiscono ricavi “occulti” sottratti alla tassazione.
Viene invece in rilievo, ed è censurata sotto il profilo tanto della violazione del canone di ragionevolezza quanto del principio di capacità contributiva, la stessa norma laddove pone la presunzione secondo cui anche i prelevamenti sul conto, se non risultanti dalle scritture contabili dell’imprenditore e salvo che quest’ultimo ne indichi il beneficiario, costituiscono, per un pari importo, ricavi.
Nell’intento di contrastare più efficacemente gravi fenomeni di evasione, il legislatore ha in vero introdotto una sorta di duplice meccanismo inferenziale in forza del quale se un imprenditore effettua un prelievo non risultante dalla contabilità lo stesso deve ritenersi compiuto per sostenere costi “occulti” che a propria volta hanno prodotto pari ricavi “occulti”, salvo che il contribuente indichi il beneficiario del prelievo.
In altre parole, la citata disposizione consente all’Amministrazione finanziaria di ricorrere a una doppia presunzione: i prelievi sarebbero destinati a finanziare costi occulti, i quali a loro volta avrebbero prodotto pari ricavi non risultanti dalla contabilità.
Parte della giurisprudenza, come prima detto, aveva obiettato come, da un accertamento analitico-deduttivo consimile, ne deriverebbe un potenziale duplice effetto distorsivo, sotto il profilo della ragionevolezza (art. 3 Cost.) e in relazione al principio della capacità contributiva (art. 53 Cost.).
Per quanto concerne il primo profilo, il rischio è quello di riservare al contribuente in possesso di una contabilità attendibile un regime probatorio più severo rispetto a quello di chi abbia omesso in toto la tenuta della contabilità, versi in situazione di complessiva inattendibilità o si sia reso responsabile di condotte talmente gravi da giustificare un accertamento induttivo.
In merito al secondo aspetto, in mancanza della deduzione dei costi, seppure presunti o desunti dalle medie si settore, si finirebbe per tassare, almeno in parte, una ricchezza inesistente.
La Consulta, richiamando la sentenza 225/2005 sopra richiamata, conclude che le questioni sollevate possono ritenersi infondate, a patto di interpretare la norma in esame (ed è questa la portata innovativa della sentenza che qui si commenta) in maniera conforme a Costituzione.
Più in dettaglio, la presunzione legale di cui all’art. 32 cit. è ragionevole e quindi non contrasta con l’art. 3, Cost., in quanto è fondata su dati di esperienza generalizzati secondo l’id quod plerumque accidit; tuttavia l’esigenza del rispetto della capacità contributiva richiede che una accentuazione così marcata del favor per il fisco sia bilanciata da un regime della prova contraria a favore del contribuente, estesa a ogni presunzione semplice (art. 2729 c.c.) e integrata dalla deducibilità del fatto notorio (art. 115, secondo comma c.p.c.). In realtà, la giurisprudenza di legittimità ben riconosce la facoltà del contribuente di fornire la prova contraria anche mediante presunzioni semplici, sia in quanto le stesse sono prove e non meri argomenti di prova, sia perché la inammissibilità di uno strumento istruttorio dovrebbe essere prevista per legge.
Il contribuente, quindi, potrà eccepire la «incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati»; ciò sulla base della più recente giurisprudenza di legittimità.
Ciò è deducibile anche da un’altra pronuncia della Corte Costituzionale, (sentenza n. 228 del 2014), la quale, ponendo in comparazione la posizione dei contribuenti imprenditori con quella dei lavoratori autonomi e dei professionisti, ha sì ritenuto, quanto a questi ultimi, che tale presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito, ma ha anche confermato, quanto agli imprenditori, che la presunzione fondata sui prelevamenti bancari è «congruente con il fisiologico andamento dell’attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi».
Sulla scia di questa giurisprudenza, la Consulta ribadisce ulteriormente, per un verso, la non manifesta irragionevolezza della «doppia presunzione» che dai prelevamenti bancari ingiustificati, eseguiti dall’imprenditore, inferisce costi e ricavi occulti e pertanto reddito imponibile, oggetto di rettifica e di accertamento da parte del fisco; presunzione che si iscrive nel più ampio contesto della normativa sulla tracciabilità dei movimenti finanziari e sulla regolamentazione limitativa della circolazione del danaro contante al fine di contrastare l’evasione o l’elusione fiscale.
Per altro verso, la Corte Costituzionale chiarisce che l’interpretazione adeguatrice della norma in esame, orientata alla conformità ai parametri suddetti, richiede che il contribuente imprenditore possa sempre articolare la prova contraria presuntiva e, in particolare, eccepire la «incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati» (sentenza n. 225 del 2005) affinché la presunzione in esame risulti compatibile anche con il principio di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.).
Non fondate sono, poi, le questioni di legittimità costituzionale sollevate sempre con riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., lo stesso art. 32, primo comma, numero 2), secondo periodo, del d.P.R. n. 600 del 1973, nella parte in cui equipara presuntivamente i prelievi ingiustificati non risultanti dalle scritture contabili ai ricavi anche per gli imprenditori assoggettati a un regime di contabilità semplificata ai sensi dell’art. 18 t.u. imposte redditi.
Ebbene, la Consulta, nel rigettare tale questione, dapprima ricorda che le imprese individuali e le società di persone e assimilate i cui ricavi non abbiano superato, nell’arco di un intero anno solare, determinate soglie (ovvero, gli importi di euro 400.000,00 se hanno per oggetto prestazioni di servizi e di euro 700.000,00 se hanno per oggetto altre attività), adottano il regime della contabilità semplificata come “naturale”, nel senso che lo stesso opera automaticamente per le medesime, ferma la possibilità di optare, in alternativa, per quello ordinario.
Le imprese che adottano un sistema di contabilità semplificata non sono obbligate a redigere il bilancio e sono, dunque, esonerate dalla tenuta delle scritture contabili (libro giornale, libro inventari e scritture ausiliarie), in quanto devono registrare solo i costi e i ricavi di competenza dell’esercizio, mentre non devono provvedere a rilevare gli incassi e i pagamenti.
I dubbi di legittimità costituzionale del giudice a quo riprendono, in larga parte, le argomentazioni sottese alla richiamata sentenza n. 228 del 2014, con la quale la Corte costituzionale, nel dichiarare costituzionalmente illegittima la norma censurata nella parte in cui, dopo l’intervento della legge n. 311 del 2004, aveva esteso anche ai lavoratori autonomi la presunzione iuris tantum per la quale i prelievi su conto corrente si considerano «compensi» così come si considerano «ricavi» per il contribuente imprenditore, ha in motivazione sottolineato che tale declaratoria si imponeva, oltre che per la natura dell’attività dei professionisti, anche per la circostanza che gli stessi possono legittimamente avvalersi di regimi di contabilità semplificata connotati da una sorta di “naturale promiscuità” tra le spese sostenute per l’esercizio dell’attività professionale e quelle personali.
La Consulta ha quindi ritenuto – proprio con riferimento ai prelevamenti bancari – che fosse costituzionalmente illegittimo l’allineamento della posizione dei lavoratori autonomi e dei professionisti a quella degli imprenditori, anche in regime di contabilità semplificata, quanto alla presunzione di ricavi/compensi “occulti”, deducibili dai prelevamenti stessi. È pertanto venuta meno l’equiparazione dei prelevamenti bancari ingiustificati ai compensi.
Anche se le figure dell’imprenditore e del lavoratore autonomo sono per molti versi affini, esistono però specificità di quest’ultima categoria che inducono a ritenere arbitraria l’omogeneità di trattamento prevista dalla disposizione censurata, alla cui stregua, anche per essa il prelevamento dal conto bancario corrisponderebbe ad un costo a sua volta produttivo di un ricavo.
Secondo tale doppia correlazione, in assenza di giustificazione deve ritenersi che la somma prelevata sia stata utilizzata per l’acquisizione, non contabilizzata e non fatturata, di fattori produttivi e che tali fattori abbiano prodotto beni o servizi venduti a loro volta senza essere contabilizzati o fatturati”. Il fondamento economico-contabile di tale presunzione è stato ritenuto dalla Corte Costituzionale congruente solo con il fisiologico andamento dell’attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi”.
Analoga caratteristica, al contrario, non è rinvenibile nell’attività svolta dai lavoratori autonomi, caratterizzata invero dalla preminenza dell’apporto del lavoro proprio e dalla marginalità dell’apparato organizzativo.
Non è possibile, però, in ragione del solo regime di contabilità in concreto adottato dal contribuente, assumere un’equiparazione tra la situazione dei lavoratori autonomi e professionisti e quello degli imprenditori commerciali; il quale ultimo si caratterizza – come evidenziato dalla stessa sentenza n. 228 del 2014 – per le continue movimentazioni sul conto corrente dovute a un’attività nella quale, a differenza di quanto avviene per lavoratori autonomi e professionisti, è preponderante sul lavoro proprio dell’imprenditore, l’apparato organizzativo che lo sostiene.
Peraltro successivamente, con il D.L. n. 193 del 2016, lo stesso legislatore è intervenuto sulla disposizione censurata proprio per risolvere il problema delle eventuali difficoltà probatorie derivanti da situazioni come quella dell’imprenditore assoggettato a contabilità semplificata, prevedendo adeguate soglie di movimentazioni giornaliere su conto corrente (sino all’importo di 1.000,00 euro) e mensili (sino all’importo complessivo di 5.000,00 euro), solo dopo il superamento delle quali opera la presunzione in esame.
Quest’ultima, pertanto, non solo non è manifestamente irragionevole (art. 3 Cost.), ma neppure determina un trattamento ingiustificatamente differenziato in peius per gli imprenditori commerciali assoggettati al regime di contabilità cosiddetta semplificata; né è leso il principio della capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.).
In conclusione, la disposizione di cui all’art. 32, co. 1 n. 2 DPR 600/1973 non è incostituzionale in primo luogo perché la presunzione legale relativa ivi prevista non contrasta con l’art. 3 Cost., essendo ammesso il contribuente alla prova contraria, anche mediante l’ausilio di presunzioni semplici; in secondo luogo, perché non viola il principio della capacità contributiva, dal momento che la portata della sentenza della Consulta 228/2014, che aveva deciso la legittimità delle regole in parola rispetto ai lavoratori autonomi, non è estensibile alla fattispecie imprenditoriale. Solo ne primo caso la prevalenza del contributo personale giustifica le continue movimentazioni sul conto corrente.